Dizionario della gente di Lozzo - La parlata ladina di Lozzo di Cadore

dalle note del prof. Elio del Favero  - a cura della Commissione della Biblioteca Comunale

prefazione del prof. Giovan Battista Pellegrini  

 

Comune di Lozzo di Cadore - il seguente contenuto, relativo all’edizione 2004 del Dizionario,  è posto online con licenza Creative Commons attribuzione - non commerciale - non opere derivate 2.5 Italia, il cui testo integrale è consultabile all’indirizzo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/legalcode. Adattamento dei testi per la messa online di Danilo De Martin per l’Union Ladina del Cadore de Medo. Per ulteriori approfondimenti è a disposizione la home page del progetto “Dizionario della gente di Lozzo” alla quale si deve fare riferimento per le regole di trascrizione fonetica utilizzate in questo progetto. Il presente file è pre-formattato per la stampa in A4.

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I Tabiàs

 

1 - Premessa

 

Il lussureggiante rigoglio dei nostri boschi, unitamente all'abbandono della plurisecolare vita agreste, ha fatto sì che gli innumerevoli fienili o tabiàs, sorti un tempo qua e là quasi a signoreggiare sui nostri più isolati territori, siano oggidì soffocati da piante d'alto fusto e cespugli d'ogni genere. Sempre più frequentemente, infatti, ci si trova dinanzi l'infelice spettacolo di un tabià che, abbandonato per anni a sé stesso, sta inesorabilmente crollando. I tabiàs, sorti per stivare il fieno falciato in alta montagna e in zone lontane dall'abitato, rispecchiano quella che fu fino agli anni sessanta la tipologia del nostro comune e più in generale quella di tutto il Cadore. Il nostro territorio era allora per la gran parte della sua estensione ad uso prativo.

è difficile immaginare quali erano le zone, a nostro parere ingrate anche per l'escursionista d'oggi, che si falciavano annualmente e si raggiungevano anche durante la stagione invernale, per prelevarvi il fieno e la legna preparata durante l'estate. Inoltre anche la luóida, il mezzo di trasporto per eccellenza, doveva essere portata sulle spalle fino al luogo di carico. Scherzosamente, la mattina della partenza, si decideva chi si doveva accollare la luóida ovvero ki ke dovèa portà la krós. Arrivati a destinazione e preparato il carico da avvallare iniziava la discesa che, per molti tratti, costava più fatica che non il salire. Tirare nei tratti pianeggianti e trattenere in quelli molto ripidi metteva a dura prova il conducente ed il mezzo. Ogni cautela veniva usata per evitare incidenti che in qualche caso si sono rivelati mortali. Chi non possedeva un tabià sul proprio kolenèl o lo possedeva, ma in zone difficilmente accessibili, stivava il fieno o la legna nel tabià d'altro proprietario. I tabiàs erano addirittura costruiti su fondo altrui a seguito di un accordo, il più delle volte verbale, fra le parti. A tal proposito si possono menzionare i tabiàs de Sórakrépa, tutti costruiti nelle vicinanze della strada del Genio e sui poderi di pochi proprietari. Molti andarono distrutti da un incendio nell'inverno del 1961-62 (vedi tavole).

La costruzione dei tabiàs, frutto di una faticosa opera artigianale, era prerogativa d'alcune famiglie paesane (ki de Bernardìn, ki de Madèrlo e ki déi Žèrve), tradizione che si tramandava di padre in figlio. Punto focale di detta arte non era certo conoscere il succedersi mnemonico delle varie fasi lavorative, bensì acquisire la maestria nella scelta del legno, del suo corretto utilizzo e della sua ottimizzazione. Resta in ogni modo inteso che i tabiàs non erano costruzioni troppo raffinate, infatti, servivano quasi esclusivamente alla conservazione del fieno e della legna, fatta eccezione per il periodo della fienagione durante la quale si utilizzavano anche come alloggio. Come ogni manufatto, anche il tabià, ha visto nelle varie epoche il succedersi delle differenti tipologie costruttive. Ancor oggi, infatti, si possono ammirare in diverse località dei nostri boschi, un tempo prati, degli antichi tabiàs che risalendo agli inizi dell'ottocento, contrapposti a quelli del primo novecento, sono più grezzi presentando le travi rotondeggianti e non squadrate.

 

 

2 - Classificazione.

 

In linea di massima si possono classificare i tabiàs secondo la loro ubicazione e destinazione in:

tabià con piano terra in muratura e parte superiore in legno; questa costruzione si localizzava nei dintorni delle zone abitate, di facile accesso e con vasta proprietà. La parte in muratura era adibita a stalla ed aveva sulla parte anteriore piccole feritoie, normalmente due, a mo' di finestre. Il piano superiore in legno era detto medéna e vi si depositava il fieno e la legna. Alcuni erano provvisti di una botola detto fenìl per far scendere il fieno direttamente nella stalla sottostante. Questo tabià era utilizzato al ritorno dalla monticazione estiva fino alle prime nevicate. Fungeva sovente anche da piccola latteria familiare.

 

tabià ad un unico piano; era costruito nelle zone meno vicine al paese. Vi si stivava il fieno e la legna preparati durante l'estate. Serviva anche da rifugio presso il quale soggiornare durante lo sfalcio estivo. Se il luogo ove si costruiva non era pianeggiante, il tabià era appoggiato su due pilastri che potevano essere sia in pietra che in legno. Lo spazio sottostante era detto mandrìžo e si utilizzava sia per stivare gli attrezzi che una piccola scorta di sàndole per la copertura del tetto. Per l'intera durata dello sfalcio fungeva anche da ricovero per le capre.

 

Alcuni tabiàs si differenziavano inoltre per dei tratti caratteristici. Sul davòi de l tabià, in corrispondenza del lato più corto, all'altezza di 2,50 m, veniva costruita una sporgenza sempre chiusa, detta magón. Era utilizzata per porre ad asciugare il fieno non ancora completamente secco o delle particolari erbe che non si dovevano mischiare con il fieno. Spesso il tabià era composto di un'altra costruzione attigua detta penížo. Era in legno e con ingresso separato, perché appartenente ad un altro proprietario.

 

3 - Scelta della zona, taglio e preparazione del legname.

 

La fase iniziale consisteva nella scelta della zona più adatta alla costruzione. Nel limite del possibile si trovava nelle immediate vicinanze di strade transitate dalle luóide. Dopo aver scelto il luogo si procedeva al taglio e alla squadratura dei tronchi necessari alla costruzione. Il legno adoperato era comunemente il larice, làris, alcune volte però si utilizzava l'abete rosso, pežuó. I periodi utili per iniziare la costruzione erano l'autunno e la primavera. Si attendeva, compatibilmente con il tempo stagionale, un periodo asciutto in modo da facilitare la lavorazione del legname. Il taglio dello stesso rispettava consuetudini legate alle fasi lunari. In primavera il legname poteva essere tagliato fino a maggio, prima del plenilunio, ñànte ke se fáže la lùna. Dopo questo periodo il legno cominciava la crescita, ossia l dèa n amó e per un nuovo taglio si doveva attendere l'autunno, fin ke se avèa fàto la lùna de aósto. Il legname tagliato fuori stagione, assumeva delle colorazioni nerastre, l se vestìa da prèe e oltre che essere antiestetico, dava luogo ad un deterioramento più rapido, ovvero i tràve i se karolèa a le śvèlte.

Durante il taglio del legname si faceva grande attenzione al rigonfiamento o konàstro della pianta. Si formava in seguito allo scorrimento verso valle della neve caduta a monte della pianta. I lati della trave ottenuta dal konàstro si collocavano verso l'interno o l'esterno del tabià, ma mai nella direzione della parete. In tal modo eventuali movimenti della trave non compromettevano la struttura, ma solo l'estetica del tabià stesso. Nel limite del possibile veniva utilizzato il legname tagliato sul posto, era conoscenza comune che il legno esposto alle medesime condizioni climatiche, si adatta meglio senza contorcersi eccessivamente.

 

4 - Squadratura delle piante.

 

Si sceglievano i quattro tronchi più grossi da cui si ricavavano le travi di base. Durante la squadratura i tronchi erano mantenuti ad una certa altezza dal terreno, appoggiandoli su due pezzi di legno trasversali. Il tronco da squadrare era fissato con un chiodo di ferro a mo' di bietta detto čantié il quale, munito d'altre due estremità, era a sua volta assicurato ai legni sottostanti. Inoltre erano ulteriormente ancorate usando delle speciali graffe dette pontòk. Si fissavano quindi le misure da rispettare. Sulla parte più stretta del tronco si conficcava un chiodo dotato di occhiello detto čodèl, lungo all'incirca 20-25 cm. La stessa misura era riportata, usando un altro čodèl, sulla parte più grossa della trave. Si univano ora i due čodiéi con dello spago, che indicava la linea da seguire. S'iniziava dunque la squadratura, eseguita adoperando la manèra làda, dalla lama molto larga e pesante. La parte posta sul lato interno al tabiàs non doveva necessariamente essere squadrata a regola d'arte, le altre invece, sia per ragioni estetiche che per ottenere la migliore aderenza possibile, dovevano essere ben levigate.

 

5 - Costruzione.

Dopo aver preparato tutte le travi perimetrali o čàğe, si livellava il terreno. Sui quattro angoli si posavano delle lastre di pietra che riducevano, alle travi poggiate direttamente a terra, gran parte dell'azione deleteria della neve e dell'umidità. Se il terreno era in pendenza, si costruivano a valle delle piccole colonne in pietra, pilastrìn, o dei muri a secco, mùre a séko. Non si usava alcun tipo di collante. Le prime due travi perimetrali, che si posavano parallele fra loro, erano mediamente più grosse delle altre di circa 5-6 cm. Una si posava sul lato dove si costruiva l'entrata del tabià, l'altra invece sul lato opposto. In senso longitudinale si mettevano altre due travi, che si adattavano con i loro incastri, komeśùre, alle travi di base. Si diceva ke i čàğe veñìa ngropàde. All'interno del perimetro, sempre longitudinalmente, si appoggiavano altre travi che servivano a sostenere il pavimento. In seguito sul telaio si posava il pavimento, čanìe. Le travi utilizzate, non dovendo ruotare su se stesse e per creare una superficie piana, erano smussate sia alle estremità che sulla parte superiore. Per il pavimento vero e proprio si usava invece del legname di bassa qualità, quali žìme, žimàs e ròba menùda.

Dopo aver costruito il perimetro di base l'operazione successiva era quella di erigere gli stipiti della porta, detti palastàdie. Le loro estremità erano assotigliate e presentavano una scanalatura longitudinale. Per creare questa scanalatura si utilizzava un'apposita ascia, a mo' di zappa molto stretta, detta sapéta. L'estremità inferiore si incuneava nella sede ricavata nella trave di base. Si diceva che le palastàdie veñìa npenàde.

Le travi a lato della porta s'incastravano nella scanalatura sopra descritta. Si diceva che i čàğe veñìa morselàde nte le palastàdie. Queste travi presentavano il morsèl, ovvero il maschio dell'incastro. Mantenendo una misura fissa la facciata esterna del tabià era perfettamente allineata, mentre la parte interna era un po' sconnessa. Si diceva ke de ìnte vanžèa kel ke vanžèa, in pratica aveva poca importanza che l'interno fosse perfetto. La costruzione e il montaggio dei morsiéi e delle palastàdie era l'operazione più difficile, giacché le travi dovevano combaciare a regola d'arte, ossia i čàğe dovèa kométe políto. La facciata principale era il biglietto da visita, la credenziale degli artigiani costruttori. Si procedeva quindi all'incastro di tutte le travi, a ngropà dùte i čàğe, fino ad un'altezza di 2,40 m, misura standard della porta. Questa operazione era rapida e solitamente non procurava alcun intoppo. In seguito si poggiava la trave dell'ingresso, detta sorapòrta o lén de la pòrta. Anch'essa presentava due incavi atti a contenere le estremità superiori delle palastàdie. Alcune volte quando l sorapòrta era di rilevanti dimensioni, l'estremità dello stipite entrava interamente nella trave, ovvero se npenèa dùta la palastàdia nte l sorapòrta. Si appoggiavano ora le travi una sopra l'altra, fino all'altezza desiderata. Le ultime due travi perimetrali in senso longitudinale erano dette prefìl ed erano chiodate ovvero pendolàde. I chiodi adoperati erano in legno e si chiamavano appunto péndoi. Erano fatti con il manaruó dagli stessi artigiani preferibilmente in larice. Diverse le misure, ma sempre di forma leggermente conica. Il loro inserimento avveniva nel foro ricavato in precedenza usando la trivèla e poi incuneati a forza.

Si ultimavano ora le due facciate o fròntespìžie. Le travi erano dotate d'incavi nei quali si appoggiavano le travi del tetto. Ad una ad una erano fissate e chiodate nella sottostante trave in modo da creare un corpo unico, compatto e solido. Spesso l'ultima trave della facciata, ove poggiavano le teržère e la kólmin, lasciava uno spazio vuoto. Al fine di chiuderlo si usavano delle travi, detti ométe. In questo tipo di struttura erano sistemati orizzontalmente, ma in strutture più complesse, quali la travatura dei tetti delle case, si collocavano in senso verticale.

 

6 - Costruzione del tetto.

 

Si cominciava ora la costruzione del telaio del tetto. Si poggiava la trave della kólmin e se la ngropèa e pendolèa nti fròntespìžie. Secondo la grandezza del tetto, per suddividere equamente il peso, si posavano travi parallele alla kólmin, dette teržère. Spesso a sostegno del tetto si metteva un'altra trave che, appoggiando sulle facciate, era sottostante la kólmin. Era denominata appunto sotekólmin. Sulla testata della kólmin, sopra la porta d'ingresso, s'intagliava una croce in segno di devozione e protezione. Internamente, sempre sulla kólmin, s'incideva la scritta L.D.S. (Laus Deo semper, lode a Dio sempre) seguita dal giorno, mese e anno relativo al completamento del tabià.

Si posavano ora le travi che dalla kólmin, poggiavano sulle eventuali teržère e sul prefìl, i degorènti. Erano chiodate su ogni trave sulla quale appoggiavano. La parte del degorènte che sporgeva dal prefìl e che costituiva l'ala del tetto, era detta l spòrto. Le stànğe ultimavano l'intelaiatura del tetto. Erano delle piccole travi squadrate che, poste in senso longitudinale a circa 20 cm di distanza l'una dall'altra, erano nbročàde, ossia fissate con chiodi di legno o bròče. Le stànğe potevano essere sostituite con delle assi di legno o brée, ma ciò si faceva solamente nei tabiàs che sorgevano nelle immediate vicinanze del paese. Inoltre il notevole costo delle assi rendeva quest'ultima soluzione assai rara. L'insieme di tutte le stànğe poste sul tetto era detto làta de l kuèrto. La copertura del tabià era una fase lavorativa notevolmente lunga. Innanzitutto si preparavano delle bóre de làris, ossia dei pezzi di tronco lunghi circa 60 cm. Era importante che fossero prive di nodi, grópe, giacché la presenza di troppi nodi rendeva le sàndole ondulate, ossia no le manteñìa la véna. Dopo averle accuratamente scortecciate erano suddivise in quattro parti e private del midollo, medól. Si facevano quindi i tap, ovvero delle incisioni che permettevano di incuneare le biette e spaccare longitudinalmente le bóre. Si utilizzava la manèra da sàndole, dalla lama molto allungata a mo' di coltello e la mažùia, grosso martello di legno di faggio. La manèra da sàndole era posta sulla parte più esterna del tronco e battendo con la mažùia la si faceva scendere verticalmente. La sàndola grezza ottenuta era in seguito raddrizzata e rifinita con il manaruó. Queste sàndole tagliate a mano erano dette sàndole dordolàde. Avevano una lunga durata perché questa lavorazione permetteva di mantenere la conformazione della crescita del legno. La posa incominciava dalle ali del tetto. Qui le sàndole erano chiodate con chiodi di legno. Man mano che si saliva verso la kólmin si posavano su tre strati, ossia n sčépena. Solo un terzo della sàndola era esposto alle intemperie, mentre i restanti due terzi erano coperti da quella soprastante (si diceva che le sàndole veñìa nteržàde). Sulla kólmin si creava una doppia riga in modo da formare un cappello. Solo dopo molti anni l'acqua, scorrendo, riusciva a penetrare all'interno, cominciando l'azione di marcescenza della sàndola. L'azione dell'acqua, unitamente alle foglie e agli aghi che cadevano sul tetto non permettevano al legno di respirare. I proprietari erano quindi obbligati, dopo circa trent'anni, quando le sàndole cominciavano a deteriorarsi, a girare le stesse sulla parte interna (a revoltà l kuèrto), così da farle durare ancora a lungo.

Il montaggio della porta era l'operazione finale. Questa era costruita con delle assi, che erano solitamente trasportate dal paese fino al luogo dove sorgeva il tabià e ivi montate. Le stesse potevano all'occorrenza essere tagliate in loco. A tale scopo si adoperava un piano d'appoggio di legno, detto mus, che si appoggiava lungo un pendio. Un'estremità stava in basso, mentre l'altra finiva alcuni metri più in alto, in modo da formare un piano orizzontale. Vi si appoggiava un tronco da sezionare già squadrato in precedenza. Era legato con delle catene e mantenuto saldo con delle biette. In due poi si procedeva al taglio. Il primo stava in piedi sopra il tronco, mentre l'altro sotto il piano. La sega era munita di un apposito telaio, per poter mantenere una linea diritta. Dopo aver ottenuto le assi, l'assemblaggio della porta durava pochissimo. Così anche l'ultimo tassello era terminato ed il tabià era sorto.

è opportuno porre l'accento sul fatto che le operazioni di taglio e di lavorazione del legname avvenivano tutte manualmente. Considerando perciò che la costruzione di un tabià, eseguita da una coppia d'artigiani, mìstre, durava più di un mese, si può ben immaginare a quale mole de laóro, fadìe e strùsie, era sottoposta la gente di un tempo... la nòstra dènte, i vèče de n òta.

 

 

Autore della scheda:

Da Pra Dante Falìse nato ad Auronzo di Cadore il 06.12.1966.

 

Fonti:

Zanella Valentino Madèrlo nato a Lozzo di Cadore, 30.09.1911 - 23.03.1995, Calligaro Giovanni de le Pàule nato a Lozzo di Cadore il 09.08.1921.

     

   

eof (ddm 02-2009)