Dizionario della gente di Lozzo - La parlata ladina di Lozzo di Cadore

dalle note del prof. Elio del Favero  - a cura della Commissione della Biblioteca Comunale

prefazione del prof. Giovan Battista Pellegrini  

 

Comune di Lozzo di Cadore - il seguente contenuto, relativo all’edizione 2004 del Dizionario,  è posto online con licenza Creative Commons attribuzione - non commerciale - non opere derivate 2.5 Italia, il cui testo integrale è consultabile all’indirizzo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/legalcode. Adattamento dei testi per la messa online di Danilo De Martin per l’Union Ladina del Cadore de Medo. Per ulteriori approfondimenti è a disposizione la home page del progetto “Dizionario della gente di Lozzo” alla quale si deve fare riferimento per le regole di trascrizione fonetica utilizzate in questo progetto. Il presente file è pre-formattato per la stampa in A4.

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čàčara, čàčera sf. (pl. čàčare, čàčere) chiacchiera, pettegolezzo. Te as solo čàčare quel che dici sono solo chiacchiere, racconti solo pettegolezzi; Kéka čàčara figura emblematica di vecchia chiacchierona dedita al bere; prov. čàčare čàčare, ma l kamìn no fuma con le chiacchere non si procura da vivere, fatti non parole (v. čàkolà).

 

čačarà, čačerà vb. intr. (čačaréo; čačarèo; čačaròu) chiacchierare. Nvénži de laurà, i a sènpre čačaròu invece di lavorare hanno sempre chiacchierato (v. čakolà).

 

čačaràda, čačeràda sf. (pl. čačaràde, čačeràde) chiacchierata. Èi fàto na gràn čačaràda kon to màre ho fatto una lunga chiacchierata con tua madre (v. čakolàda).

 

čačarèla, čakarèla sf. (pl. čačarèle, čakarèle) parlantina. L a na čakarèla ke no finìse pi ha una parlantina che non finisce mai.

 

čačarón, čačerón agg. (pl. čačarói, f. čačaróna, pl. čačaróne) chiacchierone. Kél là e pròpio n čačarón quello è proprio un chiacchierone (v. čakolón).

 

čadàstra sf. (pl. čadàstre) catasta di travi. Niére son du su da la Krós a vardà le čadàstre ieri sono salito a La Krós a controllare se le cataste di travi erano a posto .

 

čadéna sf. (pl. čadéne) catena. Čadéna del fuóu catena del focolare; čadéna de le vàče catena delle mucche, per tenerle legate alla mangiatoia; čadéna del kuèrto catena del tetto, trave trasversale alla base del tetto che poggia sui muri perimetrali della casa; sonà la čadéna suonare la catena del focolare, quando si recitava il Rosario attorno al focolare per la veglia dei morti o in altre occasioni, chi guidava la preghiera batteva con le molle del fuoco (la moléta) la catena che pende dalla cappa del camino (nàpa) per indicare che si era al Gloria; loc. mañàse ànke la čadéna del fuóu dilapidare tutte le proprie sostanze; loc. dì a busà la čadéna andare a baciare la catena del focolare, espressione non più in uso, significa complimentarsi di una nuova casa o di un festeggiamento (battesimo ecc.); čadéne da luóida catene per la slitta, veniva posta sotto i pattini per evitare che scivolasse; čadéne da kàža catene che da una parte vengono attaccate al timone del carro, dall'altra sono agganciate al komàto, il collare del cavallo; čadéne da ranpìn catene corte munite di due o quattro ganci, chiamati ranpìn, che servono per artigliare i tronchi e farli trascinare dal cavallo durante i lavori di esbosco.

 

čadenàžo sm. (pl. čadenàže) catenaccio. Sèra la pòrta del tabià kól čadenàžo chiudi la porta del fienile con il catenaccio (v. čavenàžo).

 

čadenèla sf. (pl. čadenèle) catenella, catenina. Vàrda ke bèla čadenèla de òro ke me a regalòu me madòna guarda che bella catenina d'oro mi ha regalato mia suocera (v. kadenèla).

 

čadìa sf. (pl. čadìe) caviglia. Me son skontoržésto na čadìa mi sono slogato una caviglia­­­­; parà na čadìa fòra de posto lussarsi una caviglia; èi sènpre mal nte le čadìe sento male alle caviglie, i reumatismi alle caviglie erano abbastanza frequenti perché si era soliti camminare a piedi scalzi.

 

čadìn sm. (inv.) ciotola grande, insalatiera, zuppiera, catino smaltato, fig. affossamento ad imbuto del terreno, vallone. La ciotola di terracotta è più antica del catino smaltato. Èi mañòu n čadìn de menèstra de faśuói ho mangiato una grande ciotola di minestra di fagioli; èi mañòu n čadìn de radìčo ho mangiato una insalatiera intera di radicchio; prov. ko no e farìna nte čadìn e guèra sul larìn quando non c'è farina, la vita in casa diventa dura, in stato di miseria subentra facilmente la discordia (v. podìn).

 

Čadìn sm. (top.) località a nord di Lozzo. Piano erboso in leggera pendenza a forma di catino semicircolare che si trova alla testata superiore della Val Sandolès, sotto la strada che dal Pian de Formài porta a Kòl Vidàl. Il termine Čadìn però è poco usato nel territorio di Lozzo, è viceversa molto frequente nell'area di Domegge e di Auronzo, lo stesso toponimo viene poi anche riferito alle rocce che si trovano proprio sopra.

 

Čadinèl sm. (top.) località a nord di Lozzo, sulla Kròda dei Róndoi.

 

čàğo sm. (pl. čàğe) trave. Il termine è usato ad indicare le travi di larice o d'abete poste in quadrato, a castello (blockbau) e che costituiscono la struttura portante del fienile. Se in tempi più antichi erano lasciate rotonde, di solito oggi sono travi squadrate; le travi vengono sovrapposte una all'altra in senso orizzontale, lasciando fra una e l'altra un interstizio per permettere la circolazione dell'aria, favorendo l'essicazione del fieno. Àrda là kóme ke se a menòu kel čàğo guarda come si è contorta quella trave; di a dormì su i čàğe dormire sulle travi, si dormiva sulle travi quando, ad inizio stagione, il fieno non era stato ancora raccolto (v. tabià).

 

čàkola sf. (pl. čàkole) chiacchiera, diceria. No stà kontà čàkole non raccontare pettegolezzi; èse piena de čàkole essere una gran chiacchierona; loc. ko le čàkole l kamìn no fuma con le chiacchiere il camino non fuma, per procurare da mangiare bisogna lavorare e non chiacchierare; al a na čàkola ha la parlata sciolta (v. čàčara).

 

čàl sf. (inv.) durone, ispessimento diffuso, callosità. Il callo propriamente detto si dice kàl; a fòrža de dorà la manèra, èi su le màn na čàl gròsa kóme na siòla da skàrpe a furia di adoperare la scure, ho la pelle delle mani spessa e dura come una suola di scarpe; l avèa la čàl kosì gròsa ke l čapèa la brónža kói déide pa npižàse la žigaréta aveva una callosità così spessa sulle dita delle mani che poteva prendere direttamente le braci accese ed accendersi la sigaretta (v. kàl, durón).

 

Čalàuž sm. (top.) Calalzo di Cadore. Comune posto a sette km a sud-ovest di Lozzo lungo la strada che conduce a Pieve di Cadore.

 

čaleà vb. trans. (čaléa; čalèa; čaleòu) lastricare un terreno paludoso. Nei terreni paludosi talvolta era necessario lastricare di tronchi una striscia di terreno per poter attraversare la zona con i cavalli. Si adoperavano allora scarti di legname ottenuti dal taglio del bosco o dal lavoro. Tolé su kela ròba menùda e don a čaleà kel tòko de palù prendi quel legname scarto e andiamo a lastricare quel tratto di terreno paludoso .

 

čalìme sm. (inv.) fuliggine. Al kamìn e pién de čalìme: okóre netàlo il camino è sporco di fuliggine: bisogna pulirlo.

 

čalpìa sf. (inv.) bioccoli di polvere, lanugine che si forma sotto i letti o nelle pieghe degli indumenti. Skoà la čalpìa ke e sóte l liéto scopare la polvere che si è formata sotto il letto; loc. avé le skarsèle piéne de čalpìa avere le tasche vuote, essere povero in canna.

 

čalvéa sf. (pl. čalvée) secchia, unità di misura. Recipiente di forma tronco-conica, costruito con le doghe come una botte, costituisce un'unità di misura sia per il granoturco che per le patate. Corrisponde alla capacità di 33,8 l, secondo quanto scriveva Ezio Baldovin, di 31,9 l secondo Giovanni Fabbiani. Nprésteme na čalvéa de patàte prestami una secchia di patate; stan èi fato dódeśe čalvée de sórgo quest'anno ho raccolto dodici secchie di granoturco.

 

čamà vb. trans. (čàmo; čamèo; čamòu) chiamare. Sto àrte se čàma brenèl questo arnese si chiama “morso”; čamà da na bànda chiamare in disparte; čamà ìnte invitare ad entrare; čamà fòra invitare ad uscire; čamàse fòra dichiararsi estraneo; fòra me čàmo grido al gioco, ho vinto, oppure, sono al bando; čamà sóte naia chiamare sotto le armi; čamà d òñi sòrta insultare, dirne di tutti i colori; čamà de dùto insultare; i a čamòu de dùto parkè no l e du a fèi l sò laóro gliene hanno dette di tutti i colori perché non ha fatto il suo turno di servizio; fèi ke le rìge se čàme far combaciare le righe di un vestito, di una camicetta, lungo la cucitura; čamàse gràmo pentirsi; čamà paròle offendere.

 

čaméśa sf. (pl. čaméśe) camicia. Mudàse de čaméśa cambiarsi di camicia; mañàse la čaméśa dissipare tutto il patrimonio; čaméśa de fanèla, de lin, de séda, de kànego, de bonbaśìna camicia di flanella, di lino, di seta, di canapa, di cotone felpato; prov. ñante la čaméśa e daspò l vestì prima l'indispensabile poi l'accessorio.

 

čameśòto sm. (pl. čameśòte) camicione, camicia da notte. Un tempo gli uomini al posto del pigiama, usavano un lungo camicione. Parkè làsesto kél tośàto n čameśòto? perché lasci che quel bimbo vada in giro in camicia da notte?; restà n čameśòto restare in camicia, restare al verde.

 

čamórža sf. (pl. čamórže) camoscio, sia maschio che femmina. Stan èi čapòu na čamórža e dói kariói quest'anno ho abbattuto un camoscio e due caprioli; al va su pa la pàla kóme na čamórža sale lungo i prati ripidi agile come un camoscio.

 

čàn sm. (pl. čèi) cane. Te ses trìsto kóme n čàn sei cattivo come un cane rabbioso; l e kóme n čanùto è come un cagnolino, è sempre attaccato alla gonna della mamma; prov. čàn no màña čàn, tra de čàn no i se mòrde le persone dello stesso rango non si fanno del male fra loro; prov. ki ke va a dormì kól čàn, lèva kói pùlis chi va a dormire con il cane, si alza con le pulci; i čàn móstra i koióne, i koiói móstra i skèi i cani mostrano i genitali, gli stupidi mostrano i soldi; l čàn no ména la kóda par nùia nessuno lavora gratuitamente; l čàn no ména la kóda par te, ma pal pàn il cane non muove la coda per te, ma per quel che gli dai; l čàn ke bàia, pèrde l bokón can che abbaia perde il boccone, per discutere sui cavilli si può perdere un'occasione; čàn no fa ğàte i figli assomigliano sempre ai genitori; dim. čanùto cagnolino; te ses ndrìo kóme le bàle de i čèi sei tonto; dispr. čanàto cagnaccio (v. čàna, čanèi, kàn).

 

čàn sm. (inv.) specie di morsa. Attrezzo per falegname usato per tener ferme le tavole in lavorazione. È una lingua larga circa 5 cm che ad un'estremità è piegata a L per uncinare la tavola e dall'altra parte ha una punta per essere fissata al banco. Nkuói se a spakòu l čàn, a da èse stòu l karól oggi si è rotto il čàn, deve essere stato il tarlo.

 

čàna sf. (pl. čàne) cagna (v. čàn).

 

čanà sf. (pl. čanàs) mangiatoia, condotta forzata in legno. È la struttura aperta che porta l'acqua fino alla ruota di mulini, segherie e officine. La condotta per l'acqua si compone di due parti distinte: la róia, il canale interrato che porta l'acqua al mulino e la čanà, la parte finale, in legno, costruita su tre lati di tavolame squadrato e robusto, con controllo di flusso a paratoia. Kéla čanà e piéna de bróse quella mangiatoia è piena di rimasugli del fieno; nte stàla de Pierìn e doe čanàs nella stalla di Pierino ci sono due mangiatoie; la čanà de la siéga e màrža la conduttura d'acqua della segheria è marcia; fig. kè élo nte čanà nkuói? che cosa c'è oggi da mangiare? (v. portàž).

 

čančà vb. intr. (čànčo; čančèo; čančòu) cianciare, chiacchierare. Kéla là čànča sènpre quella chiacchiera sempre; te la čànče tu ... la sai lunga tu ..., oppure: parli tu, ma te ne stai con le mani in mano ...

 

čànča sf. (pl. čànče) ciancia, chiacchiera. To mesiér e sènpre pién de čànče tuo suocero non sa che chiacchierare; ma ke čànča ke te as ma che parlantina hai.

 

čandàža sf. (pl. čandàže) albero secco, schianto, pianta rovinata, per lo più marcia e inutilizzabile, fig. donna trasandata. Okóre netà sto bósko de dùte le čandàže bisogna ripulire bene questo bosco; kéla tóśa e na čandàža quella ragazza non si cura, è trasandata (v. sandìže).

 

čanèi agg. (pl. čanèi, f. čanèra, pl. čanère) persona scorbutica, ma anche cattiva, astiosa come un cane arrabbiato. To pàre, rèkia, e sènpre stòu n čanèi koi so fiói tuo padre, che riposi in pace, è sempre stato molto severo con i suoi figli. Il termine rèkia si dice per rispetto alle persone defunte,” requiem in pace”.

 

čanèipa sf. (inv.) canapa (bot. Cannabis sativa). Il termine va riferito sia alla pianta che ai semi. Kel aužèl màña solo čanèipa quell'uccello mangia solo semi di canapa.

 

čàneva sf. (pl. čàneve) cantina, vasca di presa dell'acquedotto. Kéla čàneva e bòna pal formài, ma nò pal salàme quella cantina è adatta per il formaggio, ma non per il salame, è troppo umida.

 

čanìe sf. (solo pl.) pavimentazione del fienile in travetti grezzi, non sempre squadrati e di qualità spesso scadente. Sono poste tra la prima e la seconda trave perimetrale sul lato più lungo del fienile. Le čanìe venivano a formare il pavimento del primo piano del fienile, di a dormì su le čanìe era il modo tipico di dormire per terra, all'inizio della stagione del fieno quando, a causa del brutto tempo, non c'era ancora a disposizione il fieno secco per preparare la kóa. Kéla ròba menùda la, làsela a fèi le čanìe quelle travi scadenti lasciale da parte per fare la pavimentazione del fienile.

 

čanìžo agg. (pl. čanìže, f. čanìža) pungente, mordente. Spesso riferito a fenomeni meteorologici invernali; frédo čanìžo freddo pungente; nkuói l e čanìžo oggi c'è un freddo da lupi.

 

čanpàna sf. (pl. čanpàne) campana. L e sórdo kóme na čanpàna è sordo come una campana. Il campanile della chiesa di Lozzo, attualmente sconsacrata, ha quattro campane e una campanella che veniva suonata in occasioni particolari. A ciascuna campana è stato dato un nome: la grànda la campana maggiore; la medàna la campana di mezzo; la tèrža la terza, per grandezza e per peso; la pìžola la più piccola di tutte. Per le feste solenni le campane venivano suonate insieme sonà n sènbro; nei funerali solo tre, esclusa la grànda; a mezzogiorno e a l Àve, suonava solo la medàna; la tèrža suonava per richiamare gli scolari a scuola e a l óra de nuóte, al cadere delle tenebre. Se il tocco delle campane è leggero, lo scampanio è detto a “slancio”; se invece è molto pesante è detto “all'ambrosiana”. Il primo sistema dà un suono più argentino e squillante del secondo. Per annunciare le feste solennii inoltre si suonava kanpanòto. Per tradizione, quando si seppelliva qualcuno, i parenti del defunto offrivano come ricompensa a chi suonava le campane un žésto con pane, formaggio, salame e un fiasco di vino. A Natale poi i pochi esperti in paese che si erano dedicati al mestiere del campanaro per tutto l'anno, passavano di casa in casa a raccogliere in offerta fagioli, orzo, denaro e altri generi di conforto, con la elettrificazione delle campane tale consuetudine è cessata. (v. batòkol, kanpanòto).

 

Le čànpane de Lóže.

Distrutte dal fuoco del 1867, furono in seguito rifuse e ricollocate sul nuovo campanile. A partire dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale smisero di suonare. Requisite dai tedeschi nel 1918, le campane furono rifatte col bronzo dei cannoni nemici e rimesse al loro posto nel 1925. Ogni campana ha il suo nome: la grànda si chiama Maria Lorenza in onore del patrono S. Lorenzo; la medàna Maria Rosaria in onore della Madonna del Rosario; la tèrža Maria Lauretana in onore della Madonna di Loreto; la pìžola Maria Euròsia, Maria Roca in onore di San Rocco.

Sulla granda si legge: “Me fregit furor hostis at hostis ab aere revixi; italiam clara voce deum que canens. MCM XXV. Lozzo di Cadore 1956”.

Sulla medàna si legge: “Asportata dagli Austriaci nel maggio 1918, rifusa col bottino della vittoria il giorno 29 gennaio 1925”.

Sulla tèrža sono incisi i nomi dei caduti di Lozzo nella guerra del 1915-18; è riportata inoltre la stessa iscrizione in latino della grànda, con le date MCMXXV e 1956. La prima data incisa, 1925, ricorda l'anno della posa, la seconda, 1956, l'anno della rifusione perché si era rotta.

 

čanpanà vb. intr. (čanpanéo; čanpanèo; čanpanòu) scampanare, fig. parlare in giro, spifferare notizie riservate. E dùta la siéra ke i čanpanéa è tutta la sera che suonano le campane; l e du a čanpanà kel ke no okorèa fin a Domiéğe è andato a parlare di cose riservate fuori paese (v. sčanpanà).

 

čanpanì sm. (inv.) campanile. Va fin la dai Pelegrìni a tòle n tin de onbrìa de čanpanì va dal farmacista (Pellegrini) a comprare un po' di “ombra di campanile”, detto scherzoso rivolto persone credulone (v. kanpanì).

 

Čanpeviéi, Čanpediéi sm. (top.) località a nord di Lozzo sul versante di Auronzo.

 

čànpo sm. (pl. čànpe) campo, pezzo di terreno coltivato. I čànpe sono gli appezzamenti di terreno intorno al paese dove si coltivano patate, fagioli, orzo e segala, granoturco, lino e canapa. I terreni destinato allo sfalcio dell'erba si chiamano vàre e pras. A fianco alla casa o vicino alla stalla c'è l órto dove si coltivano ortaggi e verdure e si piantano sempre anche dei fiori. Dì pai čànpe andare a lavorare i campi; prov. fìnke l sórgo e nte i čànpe, l e del Siñór e dei Sànte finché il granoturco non è stato raccolto, rischia sempre di essere distrutto in qualche modo; dim. čanpùto; dispr. čanpàto.

 

Čanpo sm. (top.) località ad est di Lozzo nei pressi di Cimagogna in comune di Auronzo di Cadore.

 

Čanpopiàn (top.) località ad est di Lozzo lungo la strada statale che porta ad Auronzo lungo il rettilineo che precede i Treponti. In questa località, che attualmente è nel comune di Vigo di Cadore, già dall'inizio del secolo erano state costruite delle segherie. Si trattava di segherie private di proprietà delle famiglie Da Pra Colò e Chiamulèra. Attualmente le segherie sono mosse elettricamente, e sono collocate in un tratto in cui il Piave è incanalato in una gola profonda dove, in tempi passati, c'era addirittura un cidolo.

 

čantà vb. trans. (čànto; čantèo; čantòu) cantare, rimproverare. Al čànta kóme n lugerìn canta allegramente, canta bene; i sòlde fa čàntà l òrbo con il denaro si ottiene tutto; ñante te as da fenì fòra l laóro e pò čantón prima il dovere, poi il piacere; čantà Mésa andare alla messa principale e partecipare al canto; la messa non cantata si chiamava mésa bàsa; čantà l Kirie cantare il Kirie, canto eseguito all'inizio della Messa; fig. sta òta to màre te čantarà l Kirie questa volta si che tua madre te ne dice quattro; i le èi čantàde gliene ho dette di tutti i colori.

 

čantàda sf. (pl. čantàde) cantata. Adès ke avón mañòu, farónse na bèla čantàda ora che ci siamo ristorati, facciamo una bella cantata.

 

čantarèl sm. (pl. čantariéi) dispositivo interno al čavenàžo. È un dispositivo di fermo che viene rialzato mediante l'azione del chiavistello esterno (v. santarèl)

 

čantarèla sf. (pl. čantarèle) trachea. Èi dùta la čantarèla nfiamàda ho la trachea infiammata.

 

čantié sm. (inv.) graffa. Attrezzo in ferro a forma di forca che viene adoperato per tener fermi i tronchi mentre vengono squadrati. Okóre fèise fèi n čantié nuóu parkè su kel vèčo se a spakòu na pónta bisogna farsi far un'altra graffa perché si è spaccata una punta di quello vecchio e non tiene più; Faurùto ñante de takà a skuarà, l sagaièa polìto l čantiè. Faurùto prima di iniziare a squadrare le travi, sistemava a dovere la graffa per tenerle ferme.

 

čantón sm. (pl. čantói) angolo, cantone, spigolo, rione. Al čantón de la stànža l'angolo della stanza; lasà nte l čantón trascurare; n čantón de pan un pezzetto di pane; béte nte l čantón mettere in un angolo, punire o isolare qualcuno; prov. pa la ròba betùda nte čantón vien sènpre n tèmpo bón conviene sempre metter da parte la roba, che prima o poi torna utile; èi petòu ìnte pal čantón de la tòla ho battuto contro lo spigolo del tavolo; voltà l čantón scantonare; loc. èi nkóra n čantón vóito ho ancora un po' di fame; prov. botéga de čantón, la tira òñi koión la gente, in generale, va a far compere nel negozio più vicino anche se non è il più conveniente.

 

čantonàda sf. (pl. čantonàde) rione, vicinato. Normalmente il termine čantonàda è usato per indicare il gruppo di famiglie he abitano vicino e le case immediatamente circostanti. L e l pì puaréto de la čantonàda è il più povero tra i miei vicini; la me čantonàda e la pì bèla de dùte il mio rione è il più bello.

 

čantonàl sm. (pl. čantonài) mobile ad angolo, cantonale, angolare (v. kantonàl).

 

čàpa sf. (pl. čàpe) chiappa, natica, ferro che si mette sotto lo zoccolo della mucca. La čàpa e màsa grànda il ferro è troppo grande per lo zoccolo di questa mucca; a forža de menà dó fien ko la luóida, me duó le čàpe a forza di scendere e salire con la slitta da fieno, mi fanno male i glutei.

 

čapà vb. trans. e intr. (čàpo; čapèo; čapòu) prendere, afferrare, ricevere, attecchire, ritardare. Čapà pàke essere picchiato; čapà su prendersela con qualcuno, avere in antipatia, andarsene, čapo su e kamìno prendo e me ne vado; čapà pòsta ricevere posta; čapà l pósto accomodarsi, prendere posto, trovar lavoro; čapà pósto essere ingombrante; čapà sòn addormentarsi; čapà ìnte impigliarsi e urtare contro qualcosa; al ğerànio a čapòu il geranio è attecchito; čapàse non svegliarsi in tempo; nkuói bonóra me son čapòu e son ruòu tàrde n fàbrika stamattina non mi sono svegliato in tempo e son arrivato tardi al lavoro; èi čapòu na kostipažión mi son preso il raffreddore; èi čapòu ìnte pólito sto ingranando, ho cominciato a capire bene come va fatto il lavoro; me son čapòu nte n čòdo mi sono impigliato in un chiodo; me son čapòu ntrà, me son čapòu ntrà mèdo mi sono preso in mezzo, mi sono lasciato coinvolgere, fig. mi sono lasciato imbrogliare; èi čapòu dó pa le sàle sono scappato di corsa giù per le scale; čapà la pòrta o čapà fòra pa la pòrta scappare, andarsene, sgattaiolare; loc. la se a čapòu detto di donna che rimane incinta; čapàsela kon kalkedùn prendersela con qualcuno; čapàse žènža skèi trovarsi privi di denaro; čapà su e kaminà andarsene senza dire niente ad alcuno, andarsene improvvisamente; čapà sul fàto cogliere sul fatto, sorprendere; čapà pal kòl prendere per il collo, sfruttare qualcuno; čapàse ndrìo indebolirsi a causa di malattia o di mancanza di cibo; čapàse ndrìo kói mestiér trovarsi in ritardo con i lavori; čapà na kale, na piéga prendere un'abitudine; čapà ìnte polìto afferrare bene; čapà la nèsa lasciarsi cogliere dall'inedia, soffrire la fame; loc. se te vos čapà l luóiro, biśòña ke ti béte n tin de sàl su la kóda mettere il sale sulla coda della lepre per prenderla, è un modo di dire burlone che gli adulti rivolgono ai bambini che pretendono ingenuamente di catturare animali agili e molto veloci.

 

čapàda sf. (pl. čapàde) stormo di uccelli. Àsto vedù ke čapàda de žavàtoi? hai visto che stormo di fringuelli?; fig. na čapàda de śbòger una frotta di ragazzini (v. sčapàda).

 

čapamóse sf. (inv.) pigliamosche, carta moschicida. I mucchi di letame in paese hanno sempre comportato la presenza di molte mosche, per cui nei tempi passati era in uso nei negozi di generi alimentari, nelle case e nelle stalle appendere strisce gialle di carta moschicida, attaccaticcia, dove le mosche rimanevano impigliate e morivano di lì a poco. No te véde kuànte móse ke e nte sta čàśa, tàka su l čapamóse non vedi quante mosche ci sono in casa, appendi la carta moschicida. In paese c'era anche una industria chimica che tra i tanti prodotti produceva anche i pigliamosche.

 

čapapìs sm. (inv.) panno di cotone per proteggere il materasso dalla pipì dei bambini. Kànbia l čapapìs ke l e dùto biandòu cambia il panno del letto del bambino, perché è tutto bagnato; l a nkóra debeśuói del čapapìs ha ancora bisogno del panno da letto, detto anche di un ragazzino che si dà arie da giovanotto (v. dràpo).

 

čapèl sm. (pl. čapiéi) cappello. Me son konpròu n čapèl nuóu mi sono comperato un cappello nuovo; añó àsto čatòu kél čapèl da ùa? dove hai trovato quello strano cappello?; loc. bičà l čapèl par ària gettare il cappello per aria, detto di chi si affida a qualche sortilegio per prendere una decisione; prov. no se fa n čapèl pa na pioóva sola non si fa una cosa per non usarla, se fai un lavoro, fallo bene (v. kažòl).

 

čapèl da prèe sm. (pl. čapiéi da prèe) fusaggine, arbusto che vive al margine del bosco, dai fiori verdastri, che fa frutti rossi a capsula (bot. Evonymus europaea, famiglia delle Celastraceae). Le capsule viste da sopra sono quadrilobate come il berretto che usavano una volta i parroci.

 

čàpelo escl. toh, tieni, prendilo. E adès ke l lugerìn e skanpòu, čàpelo se te ses bón ed ora che hai lasciato scappare il lucherino, prendilo se ne sei capace.

 

čapìn sm. (inv.) presina. È fatta con la stoffa a trapunta o all'uncinetto e serve per afferrare il manico del paiolo o altri oggetti troppo caldi. Dòra l čapìn se nò te te skòte usa la presina, altrimenti ti scotti.

 

čàpo sm. (pl. čàpe) mandria, gregge, frotta. N čàpo de féde, un de čàure e un de vàče un gregge di pecore, uno di capre e una mandria di mucche; vàrda l pastór ke kóre su par Čaréido parkè i e skanpòu l čàpo de le féde guarda il pastore che corre verso Čaréido perché è scappato il gregge delle pecore; čàpo de tośàte una frotta di bambini.

 

čàr sm. (inv.) carro. Dói čàr de léñe due carri di legna; prov. al màl vién a čàr e l va vìa a ónže il male sopraggiunge col carro (abbondante) e se ne va a once, cioè lentamente; loc. vàdo añó ke no va nè čàr nè bòs vado a letto; loc. avé mìle čàr de reśón avere ragione da vendere; pa stràda se dréža l čàr col tempo si sistema tutto.

 

čàra sf. (pl. čàre) chiara d'uovo. A fèi fortàia se dòra ànke la čàra per fare la frittata si adopera anche l'albume.

 

Čàra sf. (nome) ipoc. di Chiara. Nène Čàra la zia Chiara.

 

čaradà vb. trans. (čaradéo; čaradèo; čaradòu) trasportare qualcosa col carro. Poco usato (v. karadà).

 

čaradàda sf. (pl. čaradàde) carreggiata. Poco usato (v. kalidàda, kaligàda).

 

čarbón sm. (pl. čarbói) carbone. Adès no se fa pì l čarbón ko la poiàta ora non si usa più fare il carbone di legna in carbonaie; béte dói čarbói nte la fogèra metti un po' di brace nello scaldaletto; skuèrde i čarbói kól žénder se te vos sparañà n furminànto copri le braci con la cenere se vuoi risparmiare un fiammifero; la frase si riferisce all'abitudine che avevano i nostri nonni di coprire con la cenere le braci del focolare prima di andare a letto, per ritrovarle la mattina seguente ancora accese.

 

čareà vb. trans. (čaréo; čareèo; čareòu) caricare. Čareà l karéto caricare il carretto; la fióra čaréa la febbre sta salendo; al se a čareòu l stómego si è caricato lo stomaco, ha mangiato troppo; al tènpo se čaréa il tempo sta diventando brutto; kafè négro čareòu caffè forte, molto carico; l se čaréa la mažùia si preoccupa senza motivo.

 

čaredèl sm. (pl. čarediéi) carrettino. Si trattava di un albero con due ruote che si metteva sotto i pattini della slitta (sóte i audìn de la luóida) quando non c'era la neve. Lo stesso termine veniva usato a indicare il carrettino in legno, fatto di una tavola con due traverse che poggiavano su ruote di legno o cuscinetti metallici, che i ragazzi usavano per scendere in velocità lungo le strade del paese. To neódo, kél pì pìžol, l kóre màsa kól čaredèl, no volaràe ke l se fàže màl tuo nipote, il più piccolo, corre troppo con il carrettino, non vorrei che si facesse male.

 

Čaréido, Čarìdo sm. (top.) località a nord del paese. Promontorio roccioso coperto di mughi, ai piedi del monte Čaréido, dove si trova l'omonimo rifugio che domina l'altopiano di Pian dei Buoi. Čarìdo, voce riportata sui documenti storici ma oggi non più usata nella parlata comune.

 

Čarežèi sm. (top.) località a nord ovest di Lozzo, in territorio comunale di Domegge. Pale boscose molto ripide degradanti da ovest del Rin, a sud-est del rifugio Bajón.

 

čarežèra sf. (pl. čarežère) strada boschiva percorsa d'inverno col čaréžo. Èra dùte ke teñèa le màn apède par manteñì le čarežère e i trói tutti davano una mano per mantenere in ordine le strade e i sentieri.

 

čaréžo sm. (pl. čaréže) slitta per trasporto di tronchi. Il čaréžo si costruisce unendo due kòče per ottenere una slitta molto lunga e provvista di lame che veniva utilizzata per trasportare tronchi d'inverno lungo i tratti di strada pianeggiante. Èra solo póče famée ke avèa n čaréžo solo poche famiglie possedevano un čaréžo .

 

čarié sm. (inv.) cumino dei prati (bot. Carum carvi L.). Se ne usano i semi disseccati per fare il liquore, la śñàpa de čarié, o il dolce rustico chiamato la péta, l'infuso con la camomilla, oppure ancora verde contro il mal di pancia; kuàn ke žèrčo l čarié ke fa la nène, me bevaràe dùta la bòža quando assaggio il cumino che prepara la zia, mi berrei la bottiglia intera.

 

čàro agg. (pl. čàre, f. čàra) chiaro, limpido, costoso. E bèlo čàro è già chiaro, è già l'alba; kafè čàro caffè chiaro, acquoso, l àga de la Piàve èra kosì čàra ke se vedèa l fónde l'acqua del Piave era così limpida che si vedeva il fondo. Čàro sto luógo! mi è costato caro questo terreno!

 

čàśa sf. (pl. čàśe) casa in genere. Un proverbio locale dice che per fare una casa ci vogliono almeno tre anni, uno per i sassi, uno per il legno, e uno per ultimarla. Forse i tempi non erano proprio quelli, ma certamente costruire una casa è sempre stato un lavoro impegnativo, tanto più quando si doveva trovare del tempo tra il lavoro dei campi e la cura degli animali, mentre d'inverno, con la neve, non c'era modo di scavare o costruire. La me čàśa e bèla la mia casa è bella; va nte čàśa a tòle i séče va in casa a prendere i secchi; dì a čàśa andare a casa; parà fòra de čàśa cacciare di casa; veñì par čàśa frequentare la casa; dì par čàśa frequentare una casa come fidanzato; prov. puóra kéla čàśa añó ke la pìta čànta e l ğàl taśe povera quella casa dove l'uomo ha perso ogni autorità; prov. čàśa n piàža, o màsa àuta o màsa bàsa tutto ciò che viene reso pubblico è oggetto di critiche; prov. vó sète òmin par fèi na čàśa, ma basta na fémena pa bičàla dó ci vogliono sette uomini per fare una casa, ma basta una donna per farla cadere; dim. čaśùta, dispr. čaśàta, accr. čaśóna.

 

Čaśabùrta sf. (top.) località ad ovest di Lozzo, verso Domegge. Oggi a Lozzo la località è meglio identificata come Val di Domegge.

 

Čaśakoldàsa sf. (top.) località a nord di Lozzo, sul versante ovest della Kròda dei Róndoi. Fino agli anni '50 era destinata a prato e pascolo, ora la zona è ricoperta di bosco.

 

čàso sm. (pl. čàse) chiasso, fig. far colpo per l'apparenza (non usato per il contenuto). Tośàte, no staśé fèi tanto čàso ragazzi non fate tanto chiasso; kon kéla čaméśa te fas pròpio čàso con quella camicia fai veramente colpo, ti fai proprio notare.

 

časós agg. (pl. časóśe, f. časóśa) vistoso, che spicca notevolmente. Karpéta časóśa sottana dai colori vistosi.

 

čàspa sf. (pl. čàspe) racchetta da neve. E ngrùmo de néve, se te vos sta par sóra, okóre ke te tìre su le čàspe per non sprofondare nella neve, occorre infilare le racchette da neve.

 

časpedà vb. trans. (časpedéo; časpedèo; časpedòu) fare strada battendo la neve con le čàspe infilate ai piedi. Betónse dakòrdo a ki ke tóča časpedà par menà do le léñe mettersi d'accordo su chi va a fare strada per portare in paese la legna e il fieno in inverno. La parola identifica anche zone o aree di terreno calpestate da precedenti passaggi di persone o animali.

 

častelìn sm. (inv.) cielo terso, terreno coperto da uno strato lucente di ghiaccio. Sta siéra e dùto n častelìn stasera il cielo è terso; su le stràde e dùto n častelìn sulle strade c'è una lastra di ghiaccio liscia e lucida (v. krestalìn).

 

častelìn sm. (inv.) piccolo arbusto con bacche rosse piuttosto acidule, ottime per spegnere la sete. Son dù su pa la Mónte e èi čatòu n grùmo de častelìn sono andato a Pian dei Buoi ed ho raccolto molte bacche.

 

Častelìn3 sm. (top.) monte e creste rocciose a nord di Lozzo, che ne delineano i confini. Il Častelìn con il suo campanile sono visibili dalla Val del Piave fin da Ponte nelle Alpi. Le due cime poggiano su di un basamento, l Tàko Gràn, che fa sembrare il tutto un cammello con carico da soma. Sono le cime rocciose più importanti della zona di Lozzo e Domegge e fissano il limite occidentale del territorio comunale. Gli alpinisti comprendono nel Gruppo del Ciastelìn, tutte le cime della parte orientale delle Marmarole, quindi sia la catena che dal Častelìn si dirige a nord-est verso il Čaréido, sia la cresta che scende verso nord in direzione Auronzo. Lungo la dorsale nord-est è molto noto, in mezzo alla Forcella di San Pietro, il Pùpo di Lozzo, detto Pùpo de San Laurènžo, poi, proseguendo sempre verso est, il Čaréido, la Foržèla de San Laurènžo, per terminare allo spallone-belvedere detto Piàn de Paradìs, o sulle carte Forcella Paradiso. La cresta che scende verso nord, Cresta di Pomadonna, non ha invece cime importanti, ma percorre zone di caccia famose che però non sono in territorio comunale di Lozzo. Il confine comunale, dalla Kròda de Gražióśo, estremo nord del territorio di Lozzo, attraversa la Val de Poórse e risale in direzione della Val Pomadòna, ma percorre una dorsale che di fatto lascia fuori, a ovest, la Val Pomadòna, passa poco a ovest del Piàn de Paradìs, e sale verso sud fino in Fóržèla de San Laurènžo. Dalla forcella percorre, verso ovest, la cresta del Čaréido fino al Častelìn, di qui scende a Kaśèra Konfìn, e poi al Rin in Val Lonğiarìn (v. Ğastelìn).

 

čaśùra sf. (pl. čaśùre) muro, steccato divisorio, delimitazione. Fatto normalmente di skòrž appuntiti inchiodati a stanghe trasversali e fissati per terra. In antico la čaśùra era un pezzo di terreno prativo, o di pascolo, ritagliato e concesso dalla proprietà regoliera a un singolo per poterlo destinare a prato o campo. Le čaśùre venivano di necessità delimitate con tavolame per difendere il contenuto dalle vacche al pascolo, per traslato, il termine da delimitazione è poi passato a indicare il terreno delimitato, anche perché una volta non c'erano recinti salvo casi eccezionali come “La muraglia di Giau”. Il termine è ancora in uso e appare anche Čòčaśùre tra i toponimi della zona di Lozzo. Domàn biśòña di a ğustà la čaśùra ke le féde a spakòu dó n siéra domani bisogna andare ad aggiustare lo steccato che le pecore hanno rotto ieri sera; prov. la tòla no a čaśùre a tavola non ci sono limiti (v. stanğàda).

 

čatà vb. trans. (čàto; čatèo; čatòu) trovare, scovare, incontrare, visitare. Èi čatòu póče fràsone sta òta stavolta ho trovato poche fragole; èi čatòu to màre pa stràda ho incontrato tua madre per strada; son dù a čatà me fiól sono andato a far visita a mio figlio; nte čàneva èi čatòu fòra la palóta del fogèr in cantina ho scovato la paletta del focolare; no sta čatà fòra kalènde, no sta čatà fòra òñe non trovare scuse, pretesti; čatà la pòrta seràda trovare la porta chiusa; čatà la stràda trovare la strada giusta; loc. čatà l kàvo de l àža trovare il bandolo della matassa; čatà da dì aver da ridire, litigare; čatàse incontrarsi; no me čàto polìto, fòra de Lóže non mi trovo bene lontano da Lozzo; čatà da dormì trovare posto a dormire; prov. ròba čatàda e mèda robàda roba trovata è mezza rubata, bisogna tener presente che in paese tutti sapevano tutto di tutti, si sapeva quindi benissimo chi aveva perso qualcosa e dove l'aveva persa, non restituire la roba trovata era quindi come rubare; čatà l dréto o čatà l indréto trovare il bandolo della matassa; me suó se čàta ko la nène mia sorella si trova bene con la zia.

 

čàu sm. (solo sing.) capo di bestiame. Si tratta di un termine antico presente nel testo dei Laudi (v. čàpo, čàvo).

 

čaučèra sf. (pl. čaučère) fornace, forno per ottenere calce viva. La calce è sempre stata il materiale principale per fare costruzioni. È la calce il legante usato da tempi molto antichi che permette di unire tra loro i sassi di un muro, e facendo presa ne fa una struttura unica. Pietre con elevato contenuto di carbonato di calcio si trovano facilmente nelle nostre montagne, la cottura di pietre per fare calce richiede forni che arrivino fino sugli 800°. Era un'operazione frequente quindi la costruzione di čaučère per la produzione della calce. Alcune esistevano anche in paese, di una che cuoceva l màrmol de Revìs, restano ancora i ruderi lungo il Rin, ma per la costruzione di tabià, o casere si preferiva in generale costruire direttamente il forno sul posto, vicino alla costruzione, piuttosto che trasportare la calce. La produzione della calce viva nel forno richiedeva inoltre molta legna, da cui il detto sta fornèla màña léñe kóme na čaučèra. Per ottenere la malta da costruzione la calce veniva impastata con sabbia tolta dal Piave, dal Rin, o da una qualche cava. In generale però le case di Lozzo non hanno intonaci esterni, sono in pietre legate con una malta scura. I fienili sparsi sui prati sono invece sempre con un bel basamento bianco, smaltato di calce. Nel tardo ‘800 arriva l'uso degli intonaci esterni, si intonaca e si sbianca tutto. Il cemento, la calce idraulica, arriva a Lozzo solo molto tardi, verso il 1900, per le case del rifabbrico non è stato usato il cemento (v. čaužìna, kalkèra, čaužinèra).

 

Čaučère sf. (top) località a nord di Lozzo, vicino a Loréto dove un tempo si cucinavano le pietre per fare la calce.

 

čauderói sm. (solo pl.) scarti della battitura della canapa. La canapa macerata, in varie cotte, veniva battuta sulla gràmola, strumento di legno a tenaglia, per pulirla dalla parte legnosa e separare la parte filamentosa utile per esser filata. La parte non filamentosa, da gettare, costituisce appunto i čauderói.

 

čàudo sm. agg. (pl. čàude, f. čàuda) caldo. Avé čàudo sentire caldo, avere caldo; l e čàudo ha la febbre; loc. su la bòta čàuda al momento giusto, immediatamente; l e ruòu su la bòta čàuda è arrivato al momento opportuno; teñì čàudo tenere caldo, proteggere; la màre tién čàudo l sò tùto la mamma sta dietro, protegge, il suo piccolo; siénte ke čàudo senti che caldo; čàudo boìu caldo bollente; prov. mèo čàudo n infèrno ke frédo n paradìs meglio caldo all'inferno, che freddo in paradiso; prov. kól čàudo dei lenžuós no se fa boì la kaliéra il caldo delle lenzuola non fa bollire la pentola, per procurarsi da mangiare bisogna lavorare e non rimanere a letto a poltrire.

 

čàura sf. (pl. čàure) capra. N čàpo de čàure un gregge di capre; fig. te ses na čàura sei una sbarazzina, senza buon senso; na čàura mùla una capra senza corna; làte de čàura latte di capra; èra mèo konprà na čàura ke avé na fémena kóme kéla meglio spender soldi per una capra che per una donna; prov. tu te ses kóme le čàure: te piàśe pì èse ko l néve ntrà i kòrne, ke ko la gràsa ntrà le ónğe sei come le capre: preferisci un lavoro all'aria aperta, anche sotto la neve, che un lavoro al chiuso anche se comodo; dim. čaurùta, kitèta.

 

čaurèi sm. (inv.) pastore delle capre, fig. uomo rozzo e volgare. Te ses pròpio n čaurèi sei proprio un villano, sei uno zoticone (v. kavrèr).

 

čàuža sf. (pl. čàuže) calza. Tirà su le čàuže mettersi le calze; fèi čàuža fare la calza; soletà le čàuže mettere una soletta di panno sotto le calze per rinforzarle; čàuže konžàde calze solettate con il panno; loc. restà a fèi čàuža rimanere zitella; lasà di dó pa le čàuže non curare gli affari, rimettere denaro per distrazione o noncuranza.

 

Čàuža sm. (nome) soprannome di famiglia.

 

čaužà vb. trans. e intr. (čàužéo; čaužèo; čaužòu) calzare, indossare, fig. essere idoneo. Čàužete polìto parkè e frédo vestiti bene perché fa freddo; ste skàrpe le čàuža polìto queste scarpe calzano bene; loc. čaužòu e viestìu calzato e vestito, fornito di ogni cosa.

 

čaužés sm. (inv.) calzerotti, calze con suoletta. Servivano da scarpe quando si lavorava nei campi durante la stagione buona perché anche i skarpéte erano preziosi e si dovevano quindi tenere da conto. Lo stesso termine era usato anche per indicare una specie di ghette di mezzalana alte fino al ginocchio: son dù a laurà nte čànpo fòra n Sant'Ana e èi róto dùte i čaužés sono andato a lavorare il campo a Sant'Anna e ho rotto tutti i calzerotti. Si chiamavano quindi čaužés sia quelli con la suola rinforzata, che quelli ridotti a semplici calzerotti (v. čaužón, kalžeròto, kalžerón, skalfarón).

 

čaužìna sf. (solo sing.) calce spenta. Veniva usata sia per fare la malta, che per preparare il latte di calcina per imbiancare.

 

čaužinèi sf. (solo sing.) malattia delle galline. Si riconosce dalla mancanza di piume sul sedere, dal formarsi di croste e dalla presenza di bava di color biancastro. Àrda la ke doe pitàte, le se a čapòu l čaužinèi ma tu guarda che galline striminzite, sono ammalate, hanno il čaužinèi.

 

čaužinèra sf. (pl. čaužinère) calcinaio, buca con acqua e calce. Čaužinèra è la buca in cui la calce viva veniva trasformata in calce spenta con l'aggiunta d'acqua, deśgalà la čaužìna. La calce viva in presenza d'acqua si gonfia, bolle portandosi facilmente sui 300° e, al contatto con la pelle, provoca ustioni. Normalmente veniva tenuta in vasche, coperta d'acqua, sufficiente a farla bollire e trasformarla in calce spenta. La calce spenta veniva lasciata nella vasca anche per qualche mese perché assorbisse acqua a sufficienza, oggi è adoperata per fare la malta o per l'intonaco. La calce veniva rimestata con una pala perché si imbevesse, poi la buca veniva coperta prima con i skòrž e poi sopra cosparsa della terra. La preparazione della calce viva nelle čaučère richiedeva sforzi notevoli e si faceva in momenti particolari, il calcinaio era invece un deposito sempre pronto all'occorrenza (v. deśgalà).

 

čaužón sm. (pl. čaužói) gambale di mezzalana. Si indossavano per andare a lavorare nei boschi coperti di neve o per altri lavori, menà gràsa, časpedà, che costringevano le gambe al freddo; bétese i čaužói calzare i gambali da neve (v. kalžón).

 

čaužòu agg. (pl. čaužàde, f. čaužàda) vestito. Loc. čaužòu vestìu vestito bene, vestito dalla testa ai piedi.

 

čàva escl. arrangiati, alla meglio. Usato in locuzioni del tipo va te čàva va a farti benedire; fèi le ròbe a la va te čàva fare le cose alla meno peggio. Ovvia derivazione dal verbo čavà volutamente mascherata.

 

čavà vb. trans. (čàvo; čavèo; čavòu) accoppiarsi, fig. imbrogliare, rubare. Se te kréde de čavàme, te te śbàlie se credi di imbrogliarmi, ti sbagli; làsa ke l se čàve lascia che si arrangi; va a fèite čavà va a farti friggere; prov. l piànde l mòrto par čavà l vìu piangere il morto per imbrogliare il vivo, lamentarsi per ottenere qualcosa.

 

čavàda sf. (pl. čavàde) coito, fig. imbroglio. L a čapòu na čavàda ke i bastèa mèda l'hanno imbrogliato in modo tale che se lo ricorderà per un bel po'.

 

čavàl sm. (pl. čavài) cavallo. Sto čavàl e bólso questo cavallo è bolso; loc. ió son a čavàl, tu rànğete io sono arrivato, tu arrangiati; prov. a čavàl bón no okóre skùria il cavallo buono non ha bisogno della frusta; ió vàdo a pès, tu te puós di a čavàl io vado a piedi, tu puoi andare a cavallo; al čavàl de le bargése il cavallo dei pantaloni; dim. čavalùto, dispr. čavalàto.

 

Čavalón sm. (top.) località a nord est di Lozzo sul sentiero che va a Čanpeviéi.

 

čavarìa sf. (pl. čavarìe) cosa da nulla, cianfrusaglia, sciocchezzuola. Késta e na čavarìa questa è una cosa da nulla; no sèi ke fèi de le tó čavarìe non so che farmene delle tue cianfrusaglie.

 

čavaról sm. (pl. čavarói) trave su cui appoggiano i sostegni terminali superiori della scala. Ka ñànte ke tóme dó le sale, e debeśuói de kanbià l čavaról qui bisogna cambiare la trave di sostegno prima che cadano le scale.

 

čavažòla sf. (pl. čavažòle) imbottitura del giogo. Vàrda ke te as fruòu la čavažòla guarda che hai consumato l'imbottitura del giogo.

 

čàve sf. (inv.) chiave. Tòle su le čàve e dón prendi le chiavi e andiamo; késta čàve no la va polìto questa chiave non funziona bene; al bus de la čàve la toppa della serratura; loc. čatà la čàve trovare il bandolo della matassa, trovare il modo per risolvere un problema.

 

Čavediés sm. (top.) località a est di Lozzo. Si trova nelle adiacenze della Poiàta, sotto la strada che conduce a Moleniés.

 

čavedón sm. (pl. čavedói) corrimano. N òta su l čavedón i betèa a suià le čàuže una volta si mettevano ad asciugare le calze sul corrimano della cucina economica.

 

čavéi del Siñór sf. (inv.) anemone delle Alpi o anemone pulsatilla (bot. Pulsatilla alpina). Pianta erbacea perenne con stili piumosi che si allungano dopo la fioritura; ha fiori bianchi, rosa, viola con stami gialli, appartiene alla famiglia delle ranuncolacee. Se te vas n Kòl Vidàl n màğo, te čàte n grùmo de čavéi de l Siñór se vai a Kòl Vidàl nel mese di maggio, trovi molti anemoni.

 

čavél sm. (pl. čavéi) capello. Čavéi biśe, rós, négre, biànke capelli grigi, rossi, neri, bianchi; čapàse pai čavéi prendersi per i capelli, litigare; son bèlo biśa pa le strùsie ho i capelli bianchi per quel che ho ormai passato; prov. čavéi rós mai no i fós sarebbe meglio che non fossero mai nati gli uomini e le donne dai capelli rossi; prov. al pì bón de i rós a kopòu sò pàre il migliore di quelli dai capelli rossi è uno che ha ammazzato il padre; àrda n tin a kéla là no te i tìre dó n čavél, l e konpàña de so màre guarda quella ragazza, è precisa nell'aspetto e nel carattere a sua madre.

 

čavenàžo sm. (pl. čavenàže) catenaccio. Sèra kél čavenàžo e dón a dormì chiudi quel catenaccio e andiamo a letto (v. čadenàžo).

 

čàvo sm. (pl. čàve) capo di bestiame. Vàrda ke bèl čàvo guarda che bella bestia (v. čàu).

 

čavói sm. (inv.) grosso recipiente di legno chiuso con cinghie metalliche. Kóme fàsto a mañà dùto kél čavói de menèstra come fai a mangiare quell'enorme piatto di minestra; il čavói era in origine un'unità di misura di capacità corrispondente a circa 20 litri, poi è rimasto in uso ad indicare una gran quantità.

 

čàža sf. (pl. čàže) mestolo. Tòle la čàža e mesedéa n òta la menèstra prendi il mestolo e mescola la minestra; čàža foràda mestolo bucato, schiumarola; na čàža de menèstra un mestolo di minestra; fig. no okóre la čàža pa kapì ste ròbe questa cosa è così semplice da capire, che non c'è bisogno di alcun aiuto; loc. èse kóme na čàža foràda avere le mani bucate, essere uno spendaccione; prov. ko la čàža ke se mesedéa se vien mesedàde come si tratta si viene trattati.

 

čažadór sm. (inv.) cacciatore. Il termine oggi è poco usato, è sostituito da kažadór. Nkuói bonóra èra ngrùmo de čažadór ke dèa n su a kàža oggi di prima mattina c'erano molti cacciatori che andavano a caccia in alta montagna (v. kažadór, più usato a Lozzo).

 

Čèčo, Čènčo sm. (nome) ipoc. di Vincenzo.

 

Čélo sm. (nome) ipoc. di Michele.

 

Čén sm. (nome) soprannome di famiglia.

 

čèrika sf. (pl. čèrike) chierica, tonsura. Avé la čèrika essere senza capelli, essere quasi calvo.

 

čerulòide sm. (inv.) celluloide. Miscela di nitrocellulosa e canfora molto infiammabile, in uso prima che venisse inventata la plastica (1960 circa). Dàme n pèi de očài de čerulòide dammi un paio di occhiali di celluloide. Fino agli anni ‘50 gli occhiali erano prodotti in celluloide nella quasi totalità. In un secondo tempo sono stati realizzati anche in metallo.

 

čéśa sf. (pl. čéśe) chiesa. Le chiese principali di Lozzo sono tre: la chiesa parrocchiale di San Lorenzo, sconsacrata dopo la costruzione della nuova parrocchiale dedicata alla Madonna del Rosario; la chiesa di San Rocco, posta nella parte alta del paese, a Pròu; il Santuario di Loréto, a circa 1 km e mezzo da Lozzo, dove la messa viene officiata il sabato e in altre particolari giornate. Negli anni '70 è stata edificata una suggestiva chiesetta a Pian dei Buoi dedicata alla Madonna del Čaréido. Vi è inoltre l'edicola de la Madonéta posta lungo la strada che da Lozzo porta al Ponte Nuovo. Ogni chiesa aveva una propria dotazione di boschi e terreni; ricordiamo ad esempio le Vìže de San Ròke e de Loréto per le chiese omonime.

 

čèso sm. (pl. čèse) cesso, gabinetto. Il gabinetto si trovava raramente all'interno della casa; di solito era costruito in legno, a poca distanza dall'abitazione e serviva contemporaneamente a diverse famiglie. L a fàto l čèso davežìn čàśa ha costruito il gabinetto vicino alla casa (v. kòmedo).

 

čeśorìn sm. (inv.) scricciolo (zool. Troglodytes troglodytes), fig. piccolo, minuto. L e pròpio n čeśorìn è proprio piccolino; al mè čeśorìn caro il mio piccolo.

 

Čéta, Čéti sf. (nome) ipoc. di Lucia.

 

Čèti sm. (nome) soprannome di famiglia.

 

čéto agg. (pl. čéte, f. čéta) zitto, fermo. Sta čéto stai zitto, stai fermo (v. kiéto).

 

Čia sf. (nome) ipoc. di Lucia.

 

čìča sf. (inv.) carne. Kè àsto mañòu a medodì? polènta e čìča che cosa hai mangiato a mezzogiorno? polenta e carne.

 

čičàda sf. (pl. čičàde) sciocchezza. Nó sta dì čičàde non dire sciocchezze.

 

čìče sf. (solo pl.) crosta che si forma sul fondo del paiolo al termine della cottura dei pestariéi, venivano considerate una prelibatezza. Sta siéra tóča a mi le čìče questa sera è il mio turno per mangiare le croste.

 

čičò sm. (inv.) chiacchierio, cicaleccio. Ka e dùto n čičò qui non si fa altro che chiacchierare.

 

čìčo agg. (pl. čì, f. čìča) caldo, calduccio. Skuèrdete se te vos sta čìčo copriti se vuoi rimanere al caldo. Čìčo buìčo espressione affettuosa usata con i bambini. Vién ka ke te stas čìčo buìčo vieni al calduccio.

 

čìka sf. (pl. čìke) sigaretta, cicca, cosa da poco. Dàme na čìka ke me fàže na fumàda dammi una sigaretta perché ho voglia di fumare; no l val na čìka non vale proprio niente; èi konpròu sto prà par na čìka ho comperato questo prato per molto poco; làseme la čìka ke èi na nsània de fèime na tiràda lasciami la sigaretta, che ho voglia di farmi una bella fumata; la čìka era anche il residuo del tabacco che, dopo aver fumato la pipa, spesso veniva masticato (v. bàgol).

 

čikà vb. trans. (čìko; čikèo; čikòu) masticare tabacco, fig. avere invidia, risentirsi. Dàme n tin de bàgol ke čìke dammi un po' di tabacco da masticare; se te i dis la verità, la čikarà se le dici la verità, se ne risentirà.

 

čìkera sf. (pl. čìkere) tazza, chicchera. L a bevù na čìkera de bró ha bevuto una tazza di brodo; la čìkera l e tomàda dó bas e l a fàto dùto sčéndene la tazzina è caduta per terra ed è andata in frantumi.

 

čiketà vb. intr. (čiketéo; čiketèo; čiketòu) sbevazzare, ubriacarsi. L e n tin čiketòu è un po' alticcio.

 

­­­­­­­­­­­­­­­­­čikéto sm. (pl. čikéte) bicchierino di grappa, rimprovero, ramanzina. Termine probabilmente derivato dal provenzale “ciquet “, bicchierino. Dàme n čikéto ke èi frédo dammi un bicchierino di grappa perché ho freddo; kel tośàto a debeśuói de n čikéto quel ragazzino ha bisogno di una ramanzina.

 

čiklamìn sm. (pl. čiklamìne) ciclamino (bot. Ciclamen purpurascens). Di a čiklamìne andare nel bosco in cerca di ciclamini.

 

čiko avv. combaciare, fig. andare d'accordo. Loc. dì a čìko andare d'accordo; kéla bréa va pròpio a čìko quell'asse combacia; l e dù a čìko de tomà è andato a rischio di cadere; són ruòu a čìko čìko sono arrivato appena in tempo.

 

Čìko2 sm. (nome) ipoc. di Francesco.

 

čikolàta sf. (pl. čikolàte) cioccolata. La se màña òñi dì n libréto de čikolàta si mangia ogni giorno una tavoletta di cioccolata; prov. čikolàta e pàn, mañà da bakàn cioccolato e pane, mangiare da riccone.

 

čikolatìn sm. (inv.) cioccolatino. I èi dòu dói čikolatìn gli ho regalato due cioccolatini.

 

čìna sf. (pl. čìne) crina di cavallo, capello dritto, pelo, ciglia. Sto stramàž e de čìne questo materasso è riempito di crine; l a le čìne dùte biànke ha le ciglia tutte bianche; te as i čavéi kóme le čìne hai i capelli dritti dritti e ribelli.

 

činbòt sm. (inv.) pagliaccio, fig. mal vestito. No sta fèi l činbòt non fare il pagliaccio; l èra vestìu kóme n činbòt era vestito molto male.

 

čò escl. ehi, ecco, piglia, eccoti. Čò, kè fasto? ehi, tu, ma che fai?; loc. kè élo sto čò? che cos'è questa confidenza?, chi ti ha autorizzato a darmi del tu?; čò n tin de pan eccoti un po' di pane.

 

čò2 sm. (inv.) gufo, allocco (zool. Asio otus), fig. sciocco, stupido. Àsto mai vedù n čò? hai mai visto un gufo?; te ses pròpio n čò sei proprio uno sciocco.

 

Čòcaśùre, Čócaśùre sf. (top.) località a est di Lozzo, che si trova poco sopra il viale dei missionari.

 

čodèl sm. (pl. čodiéi) chiodo munito di occhiello utilizzato per la squadratura delle piante. Čàpa le meśùre, npiànta i čodiéi e tìra l spàgo, ke tàko a skuarà prendi le misure, sistema i chiodi e lo spago, che comincio a squadrare le travi .

 

čodèra sf. (pl. čodère) Attrezzo del lattoniere che serve a riportar fori a distanze prefissate. Era una piastra di ferro munita di serie di buchi di diametro diverso. Col punteruolo si procedeva facendo prima i buchi necessari sulla lamiera. Tòle n tin la čodèra e l pontaruól e śbùśa kéle dóe bànde prendi la čodèra e il punteruolo e buca quelle due lamiere.

 

čodìn sm. (inv.) chiodino, fungo mangereccio (bot. Armillaria mellea), piccolo chiodo (v. fónge da žòka).

 

čòdo sm. (pl. čòde) chiodo. Sto čòdo e màsa lòngo, va a tòle un n tin pì kùrto questo chiodo è troppo lungo, va a prenderne uno più corto; fig. fičà l čòdo impuntarsi; prov. se te béte n čòdo, te lo béte sul tò se pianti un chiodo lo fai nella tua proprietà; dim. čodìn.

 

čòka sf. (pl. čòke) sbornia. Veniva chiamato così anche l'enorme lampadario pendente dal soffitto della chiesa parrocchiale di Lozzo che oggi è sconsacrata. L fa sènpre čòka fa sempre sbornia; prov. pasàda la čòka se siénte la bòta passata la sbornia, si sentono gli effetti, passata l'euforia si ritorna alla realtà.

 

čoketèi agg. (pl. čoketèi, f. čoketèra, pl. čoketère) ubriacone.

 

čoketón agg. (pl. čoketói, f. čoketóna, pl. čoketóne) ubriacone. To darmàn e sènpre stòu n čoketón tuo cugino è sempre stato un grande ubriacone.

 

čòko agg. (pl. čòke, f. čòka) ubriaco, fig. persona che capisce male, confusa. Sésto bèlo čòko? sei già ubriaco?; ma sésto čòko? ma cosa dici mai?; čòko nbreàgo ubriaco fradicio; son veñésto fòra čòko son venuto via che non capivo più niente.

 

Čóne sm. (nome) soprannome di famiglia.

 

čònko sm. (pl. čònke) pezzo di legno a capo della corda da fieno. A un capo della corda da fieno, l funàžo o l rìgin, c'era un pezzo di legno ricurvo, con un foro e un incavo per facilitare la legatura e slegatura dei fasci e anche per legare il carico alla luóida. Tién dréto l čònko se te vós ke lée l fàs de fién tieni dritta la taccola se vuoi che leghi il fascio di fieno; fig. tirà da la parte del čònko stare coi più forti; te ses kóme n čònko sei duro, sei intrattabile.

 

čópa sf. (pl. čópe) nuca, grassottello. Ma vàrda ke čópa ma guarda come è grassottello, in ottimo stato di salute.

 

čòpa sf. (pl. čòpe) tratto di strada molto ripida, salita faticosa. Dì su pa le čòpe salire per pendii molto ripidi.

 

čòpa2 sf. (pl. čòpe) forma caratteristica di pane, pagnotta. Na čòpa de pan un pezzo di pane.

 

Čòpa del làris sf. (top.) ripido tratto di mulattiera che dal paese sale a Pian dei Buoi lungo il versante di Kuóilo. È un passaggio obbligato scavato nella roccia. Sullo sperone esterno, verso valle, sono state scolpite delle croci perché poco sotto, a strapiombo, si trova la chiesetta di Loréto. Questo fatto veniva sempre ricordato dai vecchi del paese che, sostando per un momento proprio in questo punto, facevano recitare ai più piccoli una preghiera alla Madonna. Poco sopra si effettuava la prima tappa di riposo, cinque-dieci minuti di sosta al massimo, per poi ripartire per arrivare ai pascoli più in alto. Lo sforzo maggiore era comunque la discesa, quando si caricavano le slitte di fieno e di legna. Le luóide venivano calate di pochi cm alla volta da chi era addetto alla guida; quando i carichi erano molti pesanti, collaboravano più persone per evitare che il mezzo prendesse velocità: con le funi frenavano la corsa tenendole da dietro e rassicurando la persona che era alla guida. Operazione analoga veniva fatta su tratti ghiacciati dove le catene, o ràit, non scalfivano adeguatamente il ghiaccio.

 

Čòpa de Matìo sf. (top.) località che si trova sulla mulattiera che scende dai tabià della forcella verso la Bùśa de Laržéde.

 

Čòrči sm. (nome) nomignolo di persona.

 

Čóśa sf. (nome) ipoc. di Graziosa.

 

Čóśo sm. (nome) ipoc. di Grazioso.

 

čòte avv. improvvisamente. Loc. ruà su le čòte arrivare improvvisamente alle spalle, cogliere qualcuno di sorpresa; te me vién bén sóte le čòte prima o poi mi arriverai a tiro.

 

čòu sm. (inv.) testa, capo. Tu te as mal n te l čòu tu sei pazzo; èi l čòu ke e kóme n formièi ho un mal di testa terribile.

 

čòu2 avv. in fondo, a capo. Dormì da čòu dormire dalla parte della testiera del letto in contrapposizione a da pès dalla parte dei piedi. Quando le famiglie erano numerose e i letti a disposizione erano pochi, alcuni dormivano da pès, altri da čòu. N čòu del čànpo in fondo al campo; n čòu de vinti ogni venti, di venti in venti; kuàn ke te sés ruòu n čòu, torna do quando sei arrivato alla fine torna giù; può essere considerato anche col significato di a capo di, alla fine di; loc. tiràse n čòu tirarsi in fondo; tiràse su n čòu la sàla tirarsi su in cima alla scala; n čòu a la stemàna, al més, de an alla fine della settimana, del mese, dell'anno; n čòu del fuóu seduto sulla panca in fondo al focolare; n čòu de tanto ogni tanto, raramente; avé mal nte l čòu avere male alla testa.

 

čòuto sm. (pl. čòute) scomparto di armadio o cassapanca in cui si ripone la farina. Tìra fòra na ğèra de farìna de l čòuto prendi un po' di farina dallo scomparto apposito.

 

čučà vb. trans. (čùčo; čučèo; čučòu) succhiare, poppare, fig. dilapidare. Parkè te čùčesto l déido? perché ti succhi il dito?; al se a bèlo čučòu dùto kél ke i a lasòu so pàre ha già dilapidato tutto quello che gli ha lasciato suo padre; prov. e kóme čučà n čònko è come succhiare una taccola, detto di persona o cosa che non sa di niente.

 

čučàda sf. (pl. čučàde) poppata. Kél tuto l se a fàto na čučàda de luso quel bimb

o ha fatto una poppata abbondante.

 

čùčo sm. (pl. čùče) succhietto, poppatoio. No te te vargòñe: te ses bèlo gràn e te as nkóra l čùčo non ti vergogni: alla tua età hai ancora il succhiotto.

 

čučón agg. (pl. čučói, f. čučóna, pl. čučóne) ingordo. Čučón ke no te sés àutro ingordo che non sei altro.

 

čučòto sm. (pl. čučòte) poppatoio, biberón (v. tetaròla).

 

ču- ču sm. (inv.) chiacchiericcio. È voce onomatopeica, loc. ka e dùto n ču-ču qui c'è tutto un chiacchiericcio.

 

čùf, čùfo sm. (pl. čùfe) ciuffo, capigliatura. L a n čùfo ke fa paùra ha una capigliatura orribile. Perùžola de l čùf cincia allegra con il ciuffo.

 

čùla sm. (pl. čùle) persona poco intelligente. To darmàn e pròpio n čùla tuo cugino è veramente poco intelligente (v. nčulà).

 

čulà vb. trans. (čùlo; čulèo; čulòu) imbrogliare, prendere in giro. Sta òta l èi čulòu ió polìto questa volta gliel'ho fatta (v. nčulà).

 

Čùśa sf. (top.) Chiusa, Porta. Il termine indica un passaggio obbligato, la località si trova a est di Lozzo; il nome deriva da un fortilizio che sbarrava la strada romana che dal Kòl Kanpión e Loréto portava ad Auronzo e in Comelico (v. Lavinà de la Čùśa, Ruóiba).

 

čùśo agg. (pl. čùśe, f. čùśa) combaciante, perfettamente chiuso. Pì čùśo de kosì no podèa èse non poteva essere più combaciante di così.

 

Čùta, Enčùta sf. (nome) ipoc. di Lorenza.

 

Čùto, Ènči, Ènčo, Enčùto sm. (nome) ipoc. di Lorenzo, Lorenzino. Čùto Perìna era un povero vecchio, ben noto in paese, che aveva fama di aver poca voglia di lavorare. In realtà era di costituzione gracile e perciò sempre ammalato.

 

     

       

 

eof (ddm 02-2009)