Le attività pastorali in Centro Cadore. Un percorso etnografico.

Iolanda Da Deppo

Introduzione

Il Cadore [1] è una regione montuosa costituita dall'alto bacino del Piave e dei suoi maggiori affluenti Boite, Molinà, Ansiei, Digon.

L'area presa in esame da questa ricerca comprende tre zone: il Medio Cadore, l'Oltrepiave e la Val d'Ansiei. [2]Alessandro Cucagna a proposito dell'individuazione in Cadore di differenti zone che lo compongono osserva 'Indubbiamente tali divisioni fanno comodo allo studioso, ma non bisogna dar loro troppo peso e tener sempre presente che localmente sono poco o nulla sentite. Lo prova anche il fatto che le diverse denominazioni sono in parte di origine dotta.' ed aggiunge in nota 'Così, ad esempio, fu il Merlini a coniare l'espressione Medio Cadore'[3]

Tutti i corsi d'acqua del Cadore, eccetto il Rio Popena e Rinbianco, sono affluenti del Piave e la regione presenta un maggiore sviluppo idrografico sulla riva destra del fiume ed è lungo questa sponda che sono situati la maggior parte dei paesi. [4]

Il Medio Cadore, nella valle del Piave, può essere identificato nel tratto che va dalla confluenza dell'Ansiei, a Tre Ponti, fino a Sottocastello, dove oggi si trova la diga dalla cui costruzione è stato creato l'invaso del Centro Cadore [5]. La valle in questo tratto si allarga notevolmente fino a Pieve ed è interrotta da brevi vallate che si aprono sulla sua destra.

La zona si estende sui due lati del corso del Piave, ma gli insediamenti abitativi permanenti si trovano solo sul versante destro, dove una serie di ampi terrazzi ed una minore ripidezza dei pendii ne hanno reso possibile lo sviluppo [6]. La presenza di questi terrazzamenti è indicata da Alessandra Cucagna come uno dei tratti morfologici più caratteristici dell'area. [7]

In Centro Cadore si trovano i Comuni di Pieve, Calalzo, Domegge e Lozzo con le rispettive frazioni di Nebbiù, Tai, Sottocastello, Pozzale, Rizzios , Vallesella, Grea.

Dei quattro comuni citati solo Pieve e Domegge estendono le loro proprietà anche sulla riva sinistra del Piave, dove si trovano boschi, aree prative un tempo sfalciate e pascoli.

L'Oltrepiave si sviluppa nel territorio inciso dai torrenti Piova e Mauria, tributari di sinistra del Piave, in esso sorgono i comuni di Vigo (con le frazioni di Pelos e Laggio) e Lorenzago, i quali rappresentano gli unici centri che sorgono sul versante sinistro del Piave.

Gli abitati di queste due zone presentano altimetrie modeste comprese tra i 700 e i 1000 metri; solo la frazione di Pozzale si trova a quota 1054 metri. L'altitudine delle sedi umane nel Medio Cadore e nell'Oltrepiave, ed anche della Valle del Boite, distingue queste aree da quelle limitrofe dello Zoldano e del Comelico dove i villaggi raggiungono i 1400 e i 1500 metri e sono

situati in zone con accentuate pendenze. [8]

L'area è dominata da una cornice montagnosa composta dal monte Antelao (3264 m), dal gruppo del Sorapis (3025) delle Marmarole (2932) e quindi dal Tudaio (2140) dal Popera (2513 ) e dai Brentoni (2548). Quest'ultimi separano l'Oltrepiave dal Comelico. Il Cridola (2581) la cima Monfalcon (2548) e i Cadini di Toro (2131) dividono il Centro Cadore dalla Val Cellina e del Tagliamento.

Lungo il versante destro della Valle d'Ansiei si sviluppa il Comune di Auronzo. Il fiume Ansiei, trasformato negli anni '30 nel bacino artificiale di Santa Caterina [9], ha origine dal lago di Misurina, sulle cui sponde si trova l'omonimo abitato, e termina a Cima Gogna, altra piccolissima frazione del Comune. Il grosso del paese si concentra nella sezione valliva inferiore del bacino e l'abitato non supera i 940 metri d'altitudine. La valle dell'Ansiei è circondata da cime di oltre 3000 metri, come il gruppo del Cristallo, il Sorapis (3025), le Marmarole (2932). A nord si trovano Tre Cime di Lavaredo (2999), Cima Dodici e L'Aiarnola (2456) [10].

Le tre zone, pur presentando delle proprie caratteristiche geografiche e antropiche, sono sostanzialmente omogenee. Il clima non è dissimile da quello delle regioni alpine vicine, con lunghi inverni rigidi, brevi primavere ed estati spesso piovose. [11]

L'insediamento umano si presenta oggi, come in passato, sostanzialmente accentrato in pochi grossi villaggi e tale situazione è andata accentuandosi in questi ultimi trent'anni, quando l'espansione urbanistica ha annullato la separazione geografica tra comune e comune o tra paese e paese. Nel comune di Pieve non esiste quasi più soluzione di continuità tra le frazioni che lo compongono Tai, Sottocastello, Nebbiù e Pieve stessa; nel Comune di Domegge, Vallesella Grea e Domegge costituiscono un tutt'uno e così ad Auronzo dove ormai da tempo si è avuta la fusione totale tra le contrade di Villa Piccola, Villa Grande, Reane ecc…[12]

Giovanni Merlini e successivamente Eliseo Bonetti sottolineano che i paesi del Cadore 'spiccano per un'ampiezza maggiore rispetto alla consistenza numerica dei loro abitanti' [13] e ciò sembrerebbe dipendere, in alcuni centri, dall'ampiezza delle abitazioni dovuta ai rustici di grandi dimensioni che completano gli edifici, e in altri dalle strutture alberghiere .

I paesi hanno una media di 800-1000 abitanti, che vivono accentrati, mentre pochissime sono le case sparse. I Comuni più grossi sono quelli di Auronzo, Pieve e Domegge. [14]

Da un punto di vista paesaggistico e antropico le aree del Cadore qui considerate possono essere divise idealmente in 3 zone identificabili con fasce altimetriche differenti.

a) A fondovalle si trovano i centri abitati, solitamente posti nei tratti più piani dei terrazzi o spinti verso i loro limiti superiori, dove le pendenze del terreno divengono più accentuate. Gli abitati sono circondati soprattutto da boschi e prati. Fino agli anni '50, il paesaggio del Cadore era diverso, con i villaggi circondati da seminativi alternati ad ampie zone prative completamente sfalciate ed il bosco presentava un'estensione notevolmente minore di oggi.

La morfologia degli edifici e la struttura attuale degli insediamenti, sono il risultato di profonde trasformazioni del territorio, a partire dalla fine del secolo scorso. Rari sono gli insediamenti che mantengono ancora un aspetto arcaico, mentre abitazioni e contrade rispecchiano il modello urbanistico del Rifabbrico. [15] L'abbandono, infine, delle attività agricole e di allevamento e la nascita di attività turistiche ed industriali ha ulteriormente modificato la struttura dei paesi portando alla scomparsa di stalle e fienili e alla costruzione di alberghi e fabbriche.

Nel Medio Cadore e nell'Oltrepiave, riferisce il Cucagna, non si ha una casa rurale dominante, poiché nell'area si ritrovano i diversi tipi identificabili in antico, intermedio e recente.

Quest'ultimo tipo, oggi dominante, è descritto dal Cucagna così: 'Alte, disadorne, spessissimo prive di intonaco e quindi tristemente petrigne, talvolta senza una nota di colore che ravvivi il grigiore della pietra, monotone anche nella simmetrica distribuzione delle aperture, queste case negano ogni grazia ed ogni caratteristica tipicamente alpina ai centri…Il fienile si individua solo perché le sue finestre non hanno imposte, ma un serramento fisso di tavole intervallate che impediscono al foraggio di traboccare... Fortunatamente non tutti i centri presentano una morfologia così regolare e una fisionomia edilizia così deprimente.'[16]

Il tipo più antico è in muratura spesso intonacata, con sovrastrutture lignee quali ballatoi e scale esterne che collegano i diversi piani; il sottotetto è sovente aperto e, se chiuso, presenta delle aperture allo scopo di arieggiare i prodotti della terra che vengono conservati. [17]

Nella Valle d'Ansiei e soprattutto nel centro di Auronzo, il Cucagna individua una morfologia edilizia più varia e particolare grazie alle disposizioni comunali in materia di regolamento edilizio stabilite a metà del secolo scorso. [18]

A partire dagli anni 1960-'70 i centri sono andati ingrandendosi, talvolta in modo disordinato e poco razionale, con abitazioni unifamiliari o condomini.

b) Le zone intermedie ai margini superiori dei paesi, un tempo, proseguivano, con prati e seminativi, soprattutto sul versante più solatio, e nel versante opposto con piccole porzioni di pascolo e ampie zone di bosco. Questa zona era inoltre disseminata di rustici, utilizzati come abitazioni temporanee durante la fienagione o il pascolo primaverile ed autunnale. Molti di questi tabià sono stati trasformati oggi in baite o spesso abbandonati. I rustici, presenti ai margini dei paesi erano del tipo più semplice completamente, o quasi, in legno e poggianti su un piccolo zoccolo in pietra; il tetto in passato era in scandole di legno. Un altro tipo diffuso era costituito da un edificio formato da uno zoccolo in muratura dove si ricavava la stalla e al quale era sovrapposto il fienile in tavole in legno. [19]

c) La zona d'alta montagna è quella dei pascoli, la monte, sui quali erano presenti le casere per la trasformazione del latte e per il ricovero dei pastori, e i mandroi, stalle per il ricovero degli animali. Questa zona che si spinge oltre i 1800 metri, occupa ambedue i versanti della valle.

L'economia tradizionale del Cadore era quella tipica delle zone di montagna: sfruttamento del bosco, agricoltura e allevamento che, nell'area qui considerata, ha rappresentato una delle attività più importanti.

La silvicoltura, che a partire dai primi decenni del secolo ha subito una generale crisi dovuta anche alla concorrenza di zone vicine, ha dato origine ad un discreto sviluppo industriale di segherie accentrate soprattutto nelle zone di Cima Gogna, Lozzo, Calalzo e Tai e complessivamente, in passato, ha rappresentato un settore capace di assorbire un buon numero di addetti. Il bosco cadorino, composto prevalentemente da abete rosso, larice, pino silvestre e faggio, è per oltre il 70% di proprietà comunale. Una piccola parte è demaniale ed il resto di proprietà privata assegnata nel secolo scorso alle famiglie, attraverso i 'colonnelli' [20], ovvero piccole frazioni di terreno originariamente di proprietà collettiva [21].

L'agricoltura ha sempre costituito un'attività complementare, che complessivamente non ha mai occupato grandi estensioni di terreno. Si consideri che circa l'80 % della superficie agraria era adibita in passato alle coltivazioni foraggere. [22] Le colture più diffuse erano le patate, il grano turco, il fagiolo ancora presente negli anni '60, mentre la coltivazione del lino, della canapa e dell'orzo fu abbandonato prima della seconda guerra mondiale. Il granoturco fino agli anni '50 rappresentò, assieme alle patate, l'alimento base della dieta cadorina e la sua coltivazione fu spinta ai massimi limiti altimetrici, dove non raramente il prodotto giungeva difficilmente a completa maturazione; tra le zone considerate, il Medio Cadore presentava una maggiore ampiezza dei seminativi a mais i quali si trovavano, a Pozzale, oltre i 1000 metri d'altezza. [23]

Del tutto irrilevante era la coltura degli ortaggi, cui venivano riservate piccolissime porzioni di terreno quasi sempre adiacenti all'abitazione, La frutticoltura non prevedeva vere e proprie zone di coltivazione. Meli, peri, susini e poco altro venivano piantate nei prati, vare, adiacenti alle case o poco distanti da esse [24].

La scarsa rilevanza economica rivestita dall'agricoltura, anche in quelle zone geograficamente più favorevoli quali il Centro Cadore e l'Oltrepiave, era dovuta ad un insieme di cause, non ultimo il clima con lunghi inverni freddi e brevi estati piovose che spesso non permettevano di portare a giusta maturazione le coltivazioni. Accanto a dati oggettivi, quali il clima e la qualità della terra, non vanno dimenticate cause, quali l'incapacità e l'impossibilità delle popolazioni locali di migliorare l'attività con investimenti e con l'introduzione di tecniche e metodi 'moderni' e più razionali. A metà di questo secolo i metodi di coltivazione e lavorazione dei campi erano pressoché invariati rispetto all'inizio di secolo.

A partire dagli anni '50, l'attività agricola risulta regressiva in tutta l'area [25]; nel censimento generale della popolazione del 1961, nel Medio Cadore coloro che si dedicano all'agricoltura sono l'8% della popolazione attiva e la media scende al 2,9 % nel comune di Calalzo. [26] Sono le donne, anche in Cadore, e soprattutto nelle aree qui prese in considerazione, a dedicarvisi. [27]

A loro ci si deve rivolgere per conoscere il calendario delle semine e della raccolta, le cure da apportare alle piante e le tecniche per realizzare tutti i lavori manualmente[28].

Al tempo e alla fatica che queste attività richiedevano, non corrispondevano grossi risultati in termini di produttività, resa della terra e di autosufficienza alimentare, il che rendeva ancora più sofferto il grande sforzo impiegato per la loro realizzazione.

Gli scarsi prodotti ricavati dall'attività agricola hanno spinto, in passato, la maggior parte degli studiosi del Cadore a condannare lo 'spreco' di tempo e mezzi dedicato a tale attività, e a consigliare le popolazioni locali a concentrare i propri sforzi nell'allevamento e nella coltivazione di foraggi, indicati come le uniche attività redditizie per la regione. [29]

L'utilizzo prevalente del suolo per le colture foraggere e la produzione di fieno, consentiva di soddisfare le esigenze dei paesi. Merlini riferisce che solo Lozzo non disponeva di sufficiente produzione di foraggio e che quindi doveva ricorrere ai paesi vicini. [30] I prati contigui gli insediamenti, vare, venivano tagliati fino a tre volte l'anno, mentre quelli posti nella zona intermedia erano tagliati una sola volta; la minore produzione di foraggio di questi prati era dovuta non soltanto alla maggiore altitudine dei fondi, ma anche alla mancanza di concimazione che veniva riservata solo ai prati di fondovalle.

Ogni gruppo domestico autoctono disponeva di proprietà private e dell'uso di boschi e pascoli collettivi. Di proprietà privata erano e sono la maggior parte dei terreni della zona di piano, eccetto qualche area prativa adibita a pascolo primaverile ed autunnale. Nella zona intermedia si alternavano proprietà comunali e proprietà private costituite da boschi, prati e pascoli. La zona d'alta montagna, boschi, pascoli e aree incolte erano e sono soprattutto comunali ad uso collettivo. [31]

La proprietà privata era frammentata in tante particelle di terra sparse sul territorio; ogni gruppo familiare aveva orti, campi e prati di piccole e medie dimensioni dislocati in più luoghi e a differenti altezze. Eliseo Bonetti riferisce che 'secondo i dati dell'ultimo catasto agrario l'Oltrepiave su di una superficie agraria e forestale complessiva valutata a 6819 ha, si avevano 559 aziende agricole, in prevalenza ad economia diretta. I seminativi, come dai dati riportati più sopra, si limitavano a solo 138 ha. Questo stato di cose non migliora nel Medio Cadore: 1756 aziende agricole, anch'esse in buona parte ad economia diretta, si ripartivano ha 13958 di cui 385 solamente a seminativi'. [32] Questa frammentazione del territorio, particolarmente significativa da un punto di vista paesaggistico, fu sempre indicata come una delle maggiori cause della scarsa produttività dell'agricoltura cadorina; essa tuttavia risultava congeniale ad un'organizzazione stagionale delle attività e ad un lavoro basato sul nucleo familiare, quale era in passato quello cadorino. La cosa appare particolarmente evidente per la fienagione: in primavera venivano falciati i prati di fondovalle; verso la fine di giugno si saliva nei prati di montagna dove veniva effettuato un solo taglio; al termine di questo, l'erba di fondovalle era ricresciuta e pronta per essere tagliata una seconda volta.

La distribuzione in tanti piccoli appezzamenti delle zone agricole, permetteva inoltre a tutte le famiglie della comunità di disporre di campi e prati con una buona esposizione e ad una altezza vantaggiosa, in considerazione della presenza di microclimi all'interno di un piccolo territorio, che tanto influisce sulla resa della terra.

Nel calcolo del tempo necessario per la realizzazione di un dato lavoro agricolo dovevano essere considerati anche gli spostamenti per recarsi e ritornare dal posto di lavoro che, per l'area considerata, incidevano non poco. Non si dispone di calcoli precisi e validi per ciascuna famiglia sulle distanze medie in cui erano situate le proprietà, tuttavia, da quanto riferito dagli informatori, i campi solitamente si trovavano in zone lontane da casa non più di 20-30 minuti. Le famiglie, non erano quindi costrette a trasferirsi temporaneamente nei piccoli rustici che sono posti nei pressi delle zone agricole e sono frequenti soprattutto nel Medio Cadore e nella Val d'Ansiei.

Differente la situazione per i prati di montagna, che distavano fino a tre ore di cammino, e che necessariamente costringevano la famiglia al trasferimento per un mese o anche più. La mobilità all'interno dello spazio della propria comunità era per ciascun individuo molto intensa e incideva in modo sostanziale sulla programmazione della giornata lavorativa. Tutto il territorio, anche quello più distante dal centro abitato, risentiva del forte intervento dell'uomo. Ogni luogo, fosse un campo, un pascolo o un parte di bosco era indicato con un toponimo che permetteva di circoscriverlo e distinguerlo.

Una delle attività tradizionali più importanti della zona è stato l'allevamento. Ad esso è dedicato questo lavoro, con il quale si è cercato di cogliere l'aspetto generale dell'organizzazione e del sistema lavorativo praticato in una parte del Cadore, sottolineando le eventuali differenze o gli elementi di continuità all'interno dell'area.

Si tratta di una ricerca svolta sul terreno, che ha privilegiato le fonti orali, cercando di ricostruire la dinamica di questa attività e la specificità degli elementi culturali che la connotano. L'area è stata studiata partendo da una divisione per Comuni. Si è cercato di restituire anche le differenze che gli abitanti delle varie frazioni sentono come caratterizzanti rispetto agli altri e che sottolineano orgogliosamente. Il campanilismo, spesso bonario, che sussiste ancora oggi tra comune e comune, si fa sentire ancora più forte tra le varie frazioni. Il senso diffuso d'appartenenza alla regione Cadore non ha diminuito il senso di appartenenza al proprio paese; Chi da Domeie, chi da Piee, chi da Lorenthago, sono espressioni che sottolineano non solo la provenienza, ma anche l'indole generale dei paesani, sintetizzata in modo ironico o dissacrante nei blasoni popolari: Magna carta da Piee, Mus da Sotecastel, Barufanti da Domeie…ecc [33].

Per ciascun Comune, sono state realizzate mediamente 4 interviste, per un totale di 33 registrazioni. Molte altre notizie sono state raccolte in occasioni e circostanze più 'informali'. Gli informatori sono stati scelti in base alla loro esperienza lavorativa, alle loro conoscenze nel settore dell'allevamento e alla loro provenienza. Per cercare di avere elementi di confronto tra le informazioni e per sollecitare gli interlocutori ad usare un lessico specifico è stata utilizzata una griglia di domande, solo come promemoria durante le interviste.

In passato l'attività di allevamento era disciplinata dalle ferree regole raccolte nei Laudi. In Cadore verso i secoli XI e XII sorsero le Regole, istituzioni, composte dall'associazione di famiglie originarie del luogo, per la gestione e lo sfruttamento della proprietà collettiva. Le norme che disciplinavano la vita delle Regole furono raccolte nei Laudi.[34] Le normative in essi contenute descrivono e regolano minuziosamente la vita rurale delle comunità, con particolare attenzione per quanto concerne la pastorizia [35] e lo sfruttamento del bosco.

Gli articoli relativi all'allevamento si riferiscono soprattutto alle modalità e ai tempi del pascolo. Essi contengono la descrizione meticolosa delle zone in cui il gregge o la mandria, ciàpo [36], potevano transitare e pascolare, finalizzata alla tutela dei fondi e dei beni pubblici e privati. La trasgressione di queste norme, come il tenere incustoditi gli animali o il pascolo in zone e in tempi non previsti, comportava la requisizione dei capi ed il pagamento di multe. Norme precise tutelavano la tenuta dei tori da monta, che dovevano essere posti a servizio della comunità; negli articoli, riferiti a questa attività, si legge circa il numero di tori da tenere, i luoghi e i tempi del pascolo e i periodi adibiti all'accoppiamento. Altre norme regolamentavano l'elezione dei pastori e la disciplina a cui essi dovevano sottostare. Molti articoli riguardavano gli animali di proprietà di coloro che erano esterni alla comunità, i quali non potevano pascolare nei fondi pubblici o abbeverarsi alle fontane del paese senza previa licenza. [37] Il pascolo, sui monti, di pecore e capre sembra essere precedente a quello dei bovini; questo pare trovare conferma nella stessa toponomastica. [38] È presumibile che il pascolo dei bovini sia stato praticato in seguito all'espansione delle superfici prative in montagna. [39]

L'arco temporale considerato in questa ricerca, dagli inizi del '900 agli anni '60 circa, costituisce un periodo di transizione da una società contadina e rurale ad una società che si sta avviando verso l'industrializzazione e a forme di economia alternative a quelle tradizionali e che sta soprattutto cambiando il proprio modo di concepire la vita. Giovanna. Brunetta[40], individua l'inizio di tale cambiamento negli anni '30 di questo secolo. Il Cadore, sostiene l'autrice, fino ai primi decenni del '900 si presentava come un'area con un 'genere di vita' sostanzialmente simile e omogeneo. A partire dagli anni '30, nelle diverse zone che lo compongono, furono intraprese delle vie differenti di sviluppo sociale ed economico che portarono ad una differenziazione del territorio. Nel Centro Cadore si verificò una progressiva industrializzazione con la nascita delle occhialerie [41]; nella Val d'Ansiei anche se lentamente e con qualche difficoltà si sviluppò una forma di turismo dapprima solo estivo e poi anche invernale con la creazione di piste e impianti da sci [42]; l'Oltrepiave, al contrario, fu interessato da un periodo di profonda crisi che accentua il già preoccupante fenomeno dell'emigrazione. [43] Questi cambiamenti, sono nello stesso tempo la conseguenza e la causa del peggioramento verso cui si stavano inesorabilmente avviando le attività agro-silvo-pastorali.

Il periodo di maggiore sviluppo dell'allevamento bovino si ebbe negli ultimi decenni dell'800. Dal 1881 al 1930, secondo un'indagine compiuta dall'Istituto Nazionale di Economia Agraria, il patrimonio zootecnico dell'Oltrepiave passò da 1170 capi a 789, nel Medio Cadore da 2426 a 1681 capi. [44] L'allevamento nell'arco temporale qui considerato è dunque ormai in una fase involutiva; dagli anni successivi alla prima guerra mondiale, quando il numero di capi di bovini diminuisce a causa delle requisizioni e del peggioramento della qualità della vita, non riuscirà che raramente a ritornare allo stato precedente. La situazione generale dell'allevamento, soprattutto nel secondo quarto di secolo, appare ridotta non soltanto nel numero di animali allevati, ma anche nel sistema di condurre l'attività, specialmente per quanto concerne il pascolo. A partire dagli anni '30 iniziano ad essere abbandonati alcuni pascoli, con relative malghe; scompaiono per primi i pascoli collettivi per il pre-alpeggio. Le malghe, dove un tempo erano condotti bovini, vengono monticate solo con caprini e ovini ed in alcuni paesi capre e pecore abbandonano definitivamente gli alpeggi. [45]

Dopo gli anni '60, non sono rare le malghe che accolgono animali provenienti da altri comuni [46] o che vengono affittate ad allevatori, perlopiù dalla Pusteria, che conducono con sé i propri bovini. Accanto a queste trasformazioni si affiancano le sempre maggiori difficoltà a trovare personale qualificato, soprattutto in loco, poiché l'ormai affermata industria dell'occhiale ed il persistere dell'emigrazione offrono valide alternative di occupazione. [47] Per molti abitanti l'allevamento si trasforma in seconda attività, svolta dopo il lavoro in fabbrica con l'ausilio dei famigliari più anziani. La stabulazione dei bovini necessariamente si allunga ed il pascolo si riduce al periodo estivo d'alpeggio; l'attività di fienagione viene effettuata nei ritagli di tempo o nei giorni festivi ed è limitata ai fondi vicini alle proprie case, mentre quelli di montagna vengono abbandonati.

L'affermarsi del turismo, verso gli anni '60 contribuisce in parte a cambiare i ritmi di questa attività. Il turismo, soprattutto in Centro Cadore e nell'Oltrepiave, è essenzialmente estivo ed attrae perlopiù famiglie appartenenti alla classe media, che scelgono il soggiorno in case private piuttosto che in albergo. Questa forma di attività turistica, pur non incidendo in modo decisivo nell'economia dei paesi, permette un aumento diffuso del benessere e non solo di coloro che sono occupati nel terziario. Proprio in questi anni si assiste all'apertura estiva di alcune latterie, prima funzionanti solo nel periodo invernale, in seguito alla scelta di molte famiglie di non portare tutti i propri bovini in malga, vista la possibilità di vendere il latte alle famiglie di villeggianti. Gli stessi lavori della stalla subiscono dei cambiamenti, poiché non sempre essi sono compatibili con il turismo, soprattutto quello più ricco degli alberghi. Così i Comuni impongono talvolta lo spostamento dei letamai lontano dal centro, mentre l'aumento del traffico viario impedisce il trasferimento a piedi dei bovini.

Si tratta di una situazione che presenta aspetti differenti da paese a paese e che non sempre trova una spiegazione diretta nell'affermarsi di nuove economie. Il paese di Calalzo è, tra quelli considerati, il primo a veder diminuire il numero di capi bovini, caprini e ovini, grazie soprattutto alla presenza di importanti occhialerie, quali la Safilo e la Lozza, capaci non soltanto di occupare la manodopera locale ma anche di quella esterna. Il vicino comune di Domegge, pur presentando un consistente numero di fabbriche piccole e medio grandi, vede una flessione del patrimonio zootecnico inferiore ad altri paesi, in cui l'industria dell'occhiale non si è ancora affermata. [48]

La scomparsa e l'abbandono delle attività di allevamento non sono riconducibile ad una sola causa di carattere economico, [49] ma ad una serie di concause, anche sociali, che hanno portato ad un cambiamento dell'organizzazione della famiglia e dei bisogni degli individui che la compongono; si consideri ad esempio la trasformazione riguardante le donne che, verso la metà del secolo, iniziarono ad uscire dall'ambito strettamente famigliare e cercare, anche economicamente, una propria autonomia.

 

1.1 Il lavoro nella stalla

Durante il periodo invernale gli animali erano tenuti in rustici, situati in paese, composti da stalla e fienile Si trattava di edifici perlopiù in muratura talvolta annessi alla parete nord delle abitazioni o anche separati. In entrambi i casi, le stalle erano collocate al piano terra e sormontate da fienili di legno a più piani. Alcuni rustici si presentavano molto simili a case; i più antichi con ballatoi e sottotetto aperto, i più recenti completamente in muratura. I ballatoi spesso formavano una sorta di portico in corrispondenza della stalla dove erano tenuti al riparo vari attrezzi da lavoro. [50]

Le stalle erano costituite da un piccolo ambiente nel quale trovavano posto in media due, tre bovini e un numero variabile di pecore e capre. Solitamente lo spazio per accogliere gli animali minuti era ricavato con delle tavole che funzionavano da divisorio. La convivenza di bovini e ovini nel medesimo ricovero era considerata vantaggiosa, in quanto si credeva che la lana delle pecore assorbisse l'umidità prodotta dai bovini. Lungo la parete era addossata la cianà, mangiatoia quasi sempre in legno, munita nella parete esterna di un foro, dove veniva introdotta la ciadena de le vace per legare i bovini. Molte stalle erano dotate delle rastrelliere grepia\scaliera, fissate sopra la mangiatoia, e di una botola, fénil\fienil, posta in un angolo che collegava la stalla al fienile e nella quale veniva buttato il fieno per gli animali. Nella stalla, in corrispondenza della botola, c'era una struttura alta fino al soffitto, formata da assi di legno; in essa veniva raccolto il fieno da distribuire nelle mangiatoie.

D. In stala chi élo che starèa drio a la vacia, che la la mondèa, la la…Chel che se dhì guernà, nsoma?

- N genere, la storia l era n tin divisa fra i conponenti de la faméia. Ma era senpre calchidhun che farèa de pì. Mé mama, dhèa tanto a...netà la stala, che se dhisèa 'a portà fòra la grassa dhe stala', a stèrne a la vacia... A móndela nò, a móndela era me papà e me nona, fin che l à vivesto, no. .. Dhopo bisognèa… l fienìl l era sempre n tin o sóra la stala o di fianco de la stala, cuindi bisognèa dhi a tòle l fien e portalo te cianà, dai da bée a la vacia. D inverno, proprio cuan che era tanto fredho, i paricèa le seie dhe l èga, che le bée te stala, ma cuan che era apena apena posibile le ienèa liberadhe da la stala e paradhe a la fontana, che ogni frathion del paese avèa na fontana, a chei tempi cuasi cuasi a posta par abeverà la, la…le vace. E le dhèa su la fontana e i dhisèa 'dhì a beverà le vace', no. E chesto era le funzioni che se dovèa fèi ne la stala atorno a le bestie; chi che avèa una o che avèa dhói, ma era così. Naturalmente fòra dhe la porta dhe stala era n bòta la corte ònde che…la corte dhe grassa, ònde che se portèa fòra dhe stala e là se ngrumèa par poi… durante l inverno portala par i prà, no, pa i ciampe, pa i prà, pa le vare. E chesto era una funzione naturalmente da fèisse giornaliera, ah? Ogni giorno bisognèa fèi chesta roba. In pì ogni giorno bisognèa cambià chel che era l liéto dhe la vacia cuan che la dhormìa, no, e che….Chi tempi se dhèa te la Vitha, noi da Depo dheóne te la vitha, a restelà su dhuta la fóia che era sóte le faghere, la porteóne a ciasa leadha te i lenthuói, ciareadha su la liódha, i lenthuói ciareadhe dhe sta fóia, portadhe te ciasa e era n posto esclusivamente risservà per l deposito de chesta fóia. Fóia che se ciamèa 'par béte roba a stèrne'. A stèrne significa spande chesta fóia e fèi el lieto sote a la vacia ònde che la dormìa, ah.

D. Ma l fién come ienèelo portà dal fienile...dal tabià a la stala. Come se pòrtelo?

- Ah alora…Era dei fienili che sicome i era sistemadhe proprio sóra la stala, alora, in un angolo dhel fienile ienèa fato na botola che l era in comunicathión co la stala dhe sóte. Alora i dhèa su la medhéna dhe fien, i tolèa la cuantità dhe fien richiesta par …par el pasto dhe la vacia, no, i lo bucèa dhó pa sto bus... Calchi òta l era l bus che ruèa diretamente te cianà, calchi òta l ruèa de fianco, alora dhopo i dhèa dhó te stala ònde che era tomà dhó stó fien, i lo ciapèa e i lo betèa te cianà ònde che la vacia naturalmente dopo magnèa, ah.. [51]

Alle pareti della stalla erano appesi i vari attrezzi di lavoro: lo sgabello per la mungitura, sèla da monde o l scai, la striglia, stria, per pulire il mantello dell'animale, la museruola per i vitelli; in un angolo erano riposte la forca e la scopa per ripulire la stalla dal letame, scoa e forcia da grassa.

Il pavimento, d'acciottolato o di tavole di legno, talvolta si presentava leggermente più alto dove si trovavano le poste degli animali ed aveva un canale di scolo per i liquami, cuneta\gatol.

Le stalle erano provviste di una o due piccole finestre con sbarre o rete metallica [52]. Sullo stipite della porta, anch'essa di piccole dimensioni, in alto era appeso un quadro con il crocifisso o, più spesso, un'immagine di Sant'Antonio a cui la popolazione era particolarmente devota e affidava la protezione dei propri animali. L'ambiente della stalla era complessivamente buio e poco arieggiato e non sempre consono ad accogliere gli animali per un così lungo periodo.

Fuori della stalla veniva tenuto il letamaio, la corte de grassa\ledame. Era abitudine in Cadore non provvedere a contenere né coprire in alcun modo il letame; veniva tenuto ammucchiato e lasciato sotto ogni sorta d'intemperie che ne depauperavano le sostanze più nutritive. Non era raro, lo ricordano in molti, vedere scorrere, anche per le strade del paese, liquame proveniente dai cumuli di letame. Lo stallatico quando non è ancora raccolto in cumulo nel letamaio, ma si trova in stalla o meglio nei pascoli, è definito con il termine borba.

La cura e l'allevamento degli animali, indicata con verbo guernà, soprattutto nelle stalle di piccole dimensioni, era compito principalmente delle donne. Queste si recavano in stalla tre volte al giorno: la mattina presto, a mezzogiorno, la sera. In stalla si entrava con degli zoccoli appositi, le dalmede, in legno o con la tomaia in cuoio; quando faceva buio si usava il lume a petrolio che era tenuto in casa e veniva acceso prima di partire.

Alla mattina, innanzitutto, si procedeva alla pulizia della stalla; con le forche veniva raccolto il letame misto a foglie e depositato in una carriola, barèla, per poi trasportarlo nel letamaio, portà fòra. Il pavimento veniva ripulito, netà dó, con una scopa composta da un lungo manico e un fascio di rametti di nocciolo o altro, tenuti assieme con filo di ferro. La lettiera veniva quindi rinnovata. Il verbo che indica tale procedura è starnì\sterne, mentre per il materiale della lettiera si usa l'espressione roba da sterne\sternadura. Si trattava perlopiù di foglia, fóia, di ciliegio o faggio, raccolta dalle donne in autunno nei boschi. Queste foglie venivano custodite durante l'inverno in appositi ripostigli o in un angolo del fienile o della stalla. Si usavano, per la lettiera, anche trucioli di legno, segaditho\th, o le brósse, il fieno scartato dalle mucche che rimaneva nella mangiatoia.

Terminate queste operazioni, cominciava la mungitura. Per tenere calme le bovine veniva loro data una prima e abbondante razione di fieno, brancio\bratho\th de fién\fén. Il mungitore si sedeva su un piccolo sgabello a tre piedi leggermente divaricati, con un sedile di forma ovale o semicircolare o, più recentemente, rettangolare con due tavole laterali che fungono da gambe. La mammella, uro, era pulita con dell'acqua tiepida per togliere eventuali residui di escrementi, quindi massaggiato con le mani per stimolare il flusso del latte, nvenà l late. Con il secchio stretto tra le gambe iniziava la mungitura. Le tecniche variavano da mungitore a mungitore: tra gli informatori, nessuno ha indicato con un nome preciso e particolare la tecnica usata. Genericamente e con l'ausilio delle mani, hanno tuttavia differenziato la stretta a pugno, pui, che consiste nello stringere la teta, il capezzolo, con la mano intera o la stretta col pollice, pòlis, che si effettua stringendo il capezzolo con il dito pollice piegato verso il palmo della mano. Ogni allevatore terminava la mungitura assicurandosi di aver svuotato fino in fondo la mammella, per evitare l'insorgere della mastite, una delle malattie più temute.

La somministrazione di foraggio continuava dopo la mungitura; in genere alle bovine venivano date ad ogni pasto tre razioni di differente qualità di fieno. La prima razione era di fieno del primo taglio, fien\fén da vare, proveniente dai prati di fondovalle; la seconda era di fieno del secondo taglio, utiguói\utivuói, energetico e molto sostanzioso, tanto che tutti gli informatori sono concordi nel sostenere la necessità di limitarne quantitativamente la somministrazione o di mescolarlo con altre qualità. Infine la terza razione era ancora fieno da vare o prade\prà, quest'ultimo proveniente dai prati d'alta montagna. Si tratta di un fieno generalmente meno sostanzioso ma non sempre di scarsa qualità, in quanto anche nei fondi di alta montagna, grazie ad una buona esposizione al sole e alla presenza di erbe e fiori pregiati si poteva ottenere del buon foraggio. L'alimentazione a fieno veniva spesso integrata con l'aggiunta di sorgada, il fusto delle piante di granoturco, sminuzzato e mescolato al fieno, o anche con il bearon\bevaron; questa operazione era indicata anche con l'espressione da de segia [53]. Si trattava di verdure, patate di piccole dimensioni [54], barbabietole e avanzi vari di campo e orto, bolliti in acqua salata e somministrati alla mucca per ottenere più latte.

Fino alla metà del '900 nessuna stalla era munita d'acqua corrente e per l'abbeveraggio era necessario portare l'acqua con dei secchi. Durante l'inverno, alla sera, l'acqua gelida era lasciata nelle stalle affinché s'intiepidisse e fosse pronta per la mattina seguente.

Ogni frazione del paese disponeva di una fontana, brénto\brénte, dove rifornirsi e molà le bestie [55] a bere nella bella stagione ed anche in inverno. In stalla si tornava a mezzogiorno per somministrare un'altra razione di fieno. Durante la primavera, quando i lavori della fienagione erano ormai iniziati e il tempo a disposizione era poco, molte famiglie non potendo recarsi in stalla, alla mattina riponevano il fieno nelle rastrelliere

Alla sera, verso le sei, si tornava in stalla una seconda volta per mungere e portare il latte in latteria. Così terminava la giornata.

La quantità di capi bovini in stalla era talvolta indipendente dalla disponibilità di terreni e prati da destinare al taglio del fieno. Poteva accadere che una famiglia non avesse fieno a sufficienza per allevare le proprie mucche, o un'altra disponesse di una quantità di fieno maggiore rispetto al numero di bovini allevati. Così alcuni allevatori portavano le proprie mucche a invernà, ovvero a trascorrere alcuni mesi, prima dell'alpeggio, in una stalla di altra proprietà. La stabulazione a metà, dell'animale, comportava un vantaggio reciproco per il proprietario del bovino e per quello della stalla e del fieno. Il primo beneficiava della proprietà di un capo bovino in più, il secondo ricavava del guadagno dall'esubero di fieno: infatti, nel periodo in cui l'animale era in 'prestito', il prodotto della latteria veniva diviso a metà tra i due proprietari.

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